A Trovatura

Per chi, instancabilmente, cerca. Per chi crede ai fantasmi, alle vocazioni. E per chi, semplicemente, si lascia travolgere dal suono e danza su quel confine. Ancora e sempre, in disequilibrio.

Così si favella

Quel mattino, entrai nel bosco. Se tornai, non so dirlo. Ma ecco quel che vi trovai.

Un giorno, questa Terra sarà libera.

In un tempo perduto al fondo del ricordo, per proteggerli dalle razzie dei conquistatori, gli abitanti dell’Isola misero in salvo i suoi immensi tesori, celandoli in antri solitari e luoghi segreti.

Solo ai prescelti è rivelato in sogno dagli spiriti dei defunti e dalle fate come liberare i cumuli d’oro e preziosi protetti dai pircanti.

Che fine hanno fatto coloro che sono chiamati a grandi imprese?

Chi crede più alle nostre voci? Chi verrà a liberarla, questa Terra? Si domandano spiriti e folletti.

C’è ancora qualcuno disposto ad avventurarsi e rischiare per spignari u ‘ncatesimu e liberare le trovature?

***

…due strade divergevano in un bosco, e io – io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza

(Robert Frost)

***

A Trovatura – La Lupa Original Soundtrack

Voce e Movimento: Morgana Chittari

Fotografia, Musica, Montaggio video: Carmine Fotografie

La Lupa – Il podcast

America è cca! Episodio del podcast in cui si parla della legenda delle “Trovature”

La Lupa – Il sito

Sul Guardare. Parte Seconda

Leggi Parte Prima

Far vedere, come?

L’attore è l’essere umano più disponibile all’errore. Di più, è l’essere umano che

ha fatto dell’errore la propria arte

e più di tutti ha compreso il valore del fallimento. Ci si abitua a perdere, quando si fa questo mestiere, e a riconciliarsi con la sconfitta. Sbagliare è il solo modo per lavorare e creare. Questa, è una delle molte ragioni per cui amo il teatro. Nella vita, in linea di massima, se si sbaglia – sul lavoro, in famiglia, nelle relazioni sociali – si incorre in una “punizione” di qualche tipo; ce lo insegnano fin da bambini, come si fa a fare qualcosa “nel modo giusto”: è il mantra che ci ripetono. Nella vita, l’errore (anche quando fa crescere) è generalmente etichettato come un “problema”; ma

nel teatro, l’errore è una possibilità, sempre.

Nella vita, se sbagliamo perdiamo qualcosa (la possibilità di far carriera, la stima o l’affetto delle persone,…);

nel teatro, se sbagliamo guadagniamo qualcosa.

Di più: un attore può stare in scena come personaggio solo se porta dentro di sé stimoli che gli danno continuamente vigore; e ciò che dà vigore in scena sono proprio

i problemi, gli ostacoli, le difficoltà.

Sono convinta che ci soffermassimo su questo concetto, capiremmo che esso ci dice molto anche sulla vita, in realtà: viviamo ora un momento storico peculiare, certamente drammatico; a ben pensarci, è proprio quando le cose non vanno per il verso giusto che troviamo nuove strade e nuovi modi di esistere e affrontare la vita; la difficoltà è uno sprone al cambiamento, al rinnovamento, alla possibilità di non adagiarci sulle abitudini consolidate. In scena, è necessario: l’ostacolo in una storia non è una scelta ma un passaggio obbligato per farla evolvere, farla andare avanti.

Far vedere, dove?

Stanislavskij parla dell’importanza delle circostanze, la prima delle quali è il luogo. Un attore deve chiedersi: “dove mi trovo?” Se le circostanze cui attingo sono reali, sarà mio compito studiarle. Ad esempio: sono nella mia stanza, seduta su una sedia; prima di agire sulla/con la sedia, dovrò descriverla accuratamente, quindi conoscerla: in poche parole, definire esattamente com’è fatta e come posso relazionarmi ad essa, in base a com’è fatta (è di legno; è marrone; è molto dura; è comoda oppure no? Come posso sedermi? Posso sedermi a gambe incrociate? Posso salirci in piedi?). Se le circostanze di luogo sono fittizie, allora devo essere precisa nel creare nella mia mente le immagini che mi occorrono; per farlo, devo conoscere ciò di cui parlo. Ad esempio: sono in un parco, e recito davanti ai passanti; in quale città mi trovo? In quale parco? In che periodo dell’anno? Quali edifici vedo intorno? Chi c’è accanto a me? Com’è fatto il lago? Che tipo di alberi ci sono? Tutto ciò non potrà essere riportato fisicamente sulla scena, ma io dovrò fare in modo che lo sia.

Comunicare le immagini significa far sì che l’altro veda ciò che io vedo.

Il senso del Teatro è in questo far vedere.

Naturalmente, il primo oggetto dello sguardo è lo stesso corpo dell’attore. Immaginiamo, ad esempio, che in scena ci sia solo lui, senza costumi, né oggetti, né scenografie: un buon attore dovrebbe riuscire a far vedere le immagini che ha creato nella sua mente senza bisogno di sostegni o orpelli. Un attore deve sapersi misurare nella scelta degli elementi da portare sulla scena: solo quelli necessari e giustificabili; in ogni caso, se presenti, devono essere motivati.

Far vedere, perché?

L’attore, ricapitolando, mostra i contenuti della sua mente, cioè le immagini, che nascono da idee (sul mondo, sulla vita). Queste idee le ricava dalla vita, quella concreta, sua e di altri esseri umani, ma può attingerle anche dalla

vita racchiusa nei libri, nei film, e in tutta le arti amiche,

che a loro volta attingono alla vita e ce la raccontano in modi inattesi. Ad esempio: io che leggo i diari di Anais Nin, posso non aver esperito ciò che questa grande scrittrice ha vissuto ma posso comunque far mie le sue parole e decidere di portarle in scena, mostrare le idee in esse racchiuse.

Il Teatro nasce sempre da un’urgenza del dire,

ma per avere questa urgenza devo prima

avere qualcosa da dire:

può darsi che, se fortunato, un attore si troverà a lavorare spesso su testi dei quali condivide le idee ad essi sottese; ma, laddove così non fosse (e qui sta la vera sfida attoriale, dove bisogna sfoderare le armi del mestiere), l’attore farà un training tale che gli consentirà di far proprie e assorbire, come personaggio, le idee sottese al testo che dovrà recitare. Quante probabilità ci sono che un’attrice uccida un figlio? Eppure, quell’attrice in scena dovrà essere convincente quando la sua Medea ucciderà i figli. Non sempre l’attore ha la fortuna di portare in scena temi che lo interessano, o che condivide: dovrà trovare un modo, e la tecnica glielo fornirà, per convincerci che le sue azioni sono credibili.

Una volta trovate le idee, anche qualora non ci appartengano, viene da chiedersi ancora: che cos’è questa urgenza del dire?

Mostrare, perché?

Senza voler assegnare un ruolo messianico all’attore, esiste una grande verità che riguarda il Teatro così come, in generale, riguarda tutta l’Arte come testimonianza indelebile della Vita.

Tutte le azioni che l’attore mostra in scena, specialmente quelle che consideriamo più banali, hanno una storia: perciò sono importanti.

Azioni come camminare, raccogliere un fiore, mangiare un dolce, ci trascendono: compiute da altri esseri umani, in modi differenti, esistono prima e dopo di noi.

Dobbiamo riconoscere il valore di queste azioni, esserne consapevoli e mostrarle per ciò che sono:

esse, fanno la Storia. Esse, SONO la Storia dell’Uomo.

Ecco perché il teatro è, ineluttabilmente, morale nel senso etimologico del termine: “mos, moris”, in latino, significa “costume, abitudine, comportamento” riferito all’uomo come essere sociale. Perché il teatro è morale, o non è? Perché, dando valore ad un gesto semplice, come può essere una stretta di mano, ci fa riflettere sul suo valore. Un tempo, lo sappiamo bene, una stretta di mano aveva un valore morale: era un impegno al quale non si poteva venir meno. In qualche misura, il Teatro ci porta a riconoscere il valore supremo della vita, dei piccoli gesti che compongono la storia umana, e capire che

ciascuno di noi, esistendo, è un prolungamento della Storia.

Il teatro, scrive Stella Adler, è “la radiografia spirituale e sociale del tempo”, è stato creato per raccontare alla gente la verità sulla vita e la situazione sociale del suo tempo; esattamente come la cultura in generale è “la valuta della civiltà”, la cartina di tornasole della società:

perciò se il Teatro, se la Cultura, sono corrotte, o assenti, anche la civiltà lo è. Corrotta. Assente.

(Soliloquo nato dal dialogo con Stella Adler, “L’arte della recitazione”)

(In copertina: “Autoritratto”, acrilico su tela, 50 x60)

Sul Guardare. Parte Prima

Esistono parole che hanno il privilegio di custodire l’essenza del loro significato.

Teatro”, deriva dal verbo greco ϑεάομαι «guardare». Recitare è, essenzialmente, agire (“attore”, dal verbo latino “agere”, è propriamente “colui che agisce”). La prima, peculiare azione dell’attore è “guardare”. Ciò che guarda, un attore dev’essere in grado di farlo vedere. Si torna all’essenza delle parole, e si trovano le “cose”.  

Potremmo dire che un attore è prima di tutto un “guardone”, o un fanatico dello sguardo: lo allena continuamente. Ma, soprattutto, è qualcuno che

guarda in modo preciso,

il cui sguardo ha sempre una direzione, uno scopo, un obiettivo.

Un esempio: mi trovo nella mia stanza e decido di fare un’azione semplice come “contare”; non mi metterò semplicemente a “contare” ma a contare quanti oggetti rossi ci sono, quante candele spente, quanti maglioni blu e quanti neri, quante penne, e via dicendo. Scelgo l’azione veicolata dal verbo “contare” perché la trovo efficace: essa racchiude già in sé qualcosa di preciso, quasi scientifico. Se per contare davvero devo decidere di “contare qualcosa” (e non genericamente “contare”), allo stesso modo per guardare davvero devo decidere dove dirigere lo sguardo. Ecco che ora afferro una penna: la guardo, dico di che materiale è fatta, di che colore, quanto è grande, eccetera.

“Contare” e “guardare” sono “verbi”: nell’allenamento di un attore è essenziale

trasformare qualsiasi idea o pensiero in un verbo

perché il verbo (diversamente del sostantivo, ad esempio) ci rimanda subito dall’idea al gesto concreto e rappresenta quindi un’indicazione molto efficace.

Per sintetizzare, in un esempio, quanto detto fin qui: se io dico “ho lo sguardo di chi è triste di fronte alla morte” do a me stessa un’indicazione meno efficace e più generica di “guardo mia madre morta”; in questa seconda frase non solo ho usato un verbo che rimanda all’azione (guardare) invece che al concetto racchiuso nel sostantivo (lo sguardo) ma ho anche indirizzato quest’azione ad un “oggetto” preciso (mia madre morta) invece che ad un’idea astratta (la morte).

Far vedere, cosa?

Un attore deve essere in grado di creare nella propria mente immagini precise che diano forza alle sue parole. Non bisognerebbe mai aprir bocca senza avere immagini in testa: è la prima regola della recitazione. Per farlo, dobbiamo prima di tutto studiare con attenzione gli oggetti della nostra quotidianità e comprendere che non sono banali.

Il Teatro ha il potere di rendere significativo e far uscire dall’anonimato ciò che nella quotidianità consideriamo scontato.

L’attrice Stella Adler parla di uno dei primissimi esercizi che fa fare ai suoi allievi: scegliere un oggetto della natura e descriverlo. Perché proprio un oggetto della natura? Perché, ci ricorda la Adler, la natura è eterna, prescinde da noi: ci preesiste ed esisterà, dopo e senza di noi.

Come attori dovete rendervi conto che ciò che vedete è un miracolo solamente perché esiste.

Dopo tutto, avete scelto questa professione perché vi sembrava impossibile vivere in un altro modo. Recitando vi sareste sentiti più vivi.

Se infondete vita alle cose che vi circondano, quando sarete in scena riuscirete a farle vedere.”

Descrivere un sasso o un fiore con precisione è un esercizio incredibilmente rivelatore, secondo la Adler: descriverlo non significa spiegarlo, bensì riviverlo, cioè ricreare attraverso i cinque sensi le sensazioni connesse all’esperienza che abbiamo fatto di quell’oggetto, e comunicarle a chi ascolta; ma se non siamo stati in grado di guardare un oggetto creando con esso un contatto reale, lasciandoci “toccare” da esso, quando lo rievocheremo attraverso il filtro delle parole chi ci ascolta non sarà toccato da quello che diciamo.

“Le parole sono solo la conseguenza di ciò che avete visto (…) arrivano soltanto dopo aver visto.”

Vedere qualcosa è prerogativa necessaria per comunicarla, cioè

farla vedere agli altri.

E così, ancora una volta, si torna all’essenza dell’arte teatrale.

Parlando dell’oggetto, dice la Adler ai suoi allievi:

Non spiegatelo.

Portateci lì. Mostrateci qualcosa che appartiene a voi, poi fatene dono. La descrizione è meno importante dei sentimenti suscitati dalle parole. (…) Riportare un fatto a cui si è assistito è una cosa,

vivere l’esperienza di assistervi è un’altra.

La prima la si fa sui giornali, la seconda sui palcoscenici.”

Ma, in pratica, come si agisce questo meraviglioso concetto?

Semplificando, potremmo dire: facendo davvero accadere qualcosa. In scena, l’attore non deve fingere che un fatto stia accadendo ma reagire nel modo in cui reagirebbe se accadesse in quell’istante. Concretamente: l’attore in scena sa che, da copione, il suo personaggio riceverà uno schiaffo dalla donna che ama; in questo senso, il fatto di sapere prima, per un attore, può non essere una risorsa ma un limite: suo compito sarà reagire “come se” e far vivere a chi lo guarda l’esperienza universale del dolore che si prova nel ricevere uno schiaffo dalla persona amata.

Ma dove attinge le esperienze e le immagini, l’attore? Potremmo dire che, oltre a essere il più grande guardone del mondo, l’attore è anche il più grande imitatore: non è l’accademia o la scuola la sua aula, ma l’universo intero.

Osserva e imita”

è il suo motto: un essere umano avido di vita, affamato, che continuamente va a caccia di stimoli sui quale lavorare durante il processo creativo. L’attore è lo stakanovista per eccellenza: mentre vive, lavora, indefessamente; più vive, più si sprofonda nella vita, meglio lavora.

Leggi Parte Seconda

(Soliloquio nato dal dialogo con Stella Adler, “L’arte della recitazione”)

(In copertina: “Autoritratto”, acrilico su tela, 50 x 60)

Lo stile è una storia

Cos’è il “modo” per un attore?

Il “modo” è l’essenza stessa dell’arte dell’attore.

Più l’azione in scena è semplice, “di transizione”, quotidiana, meglio lo spettatore potrà osservare il “modo” di quell’azione e capire se ha di fronte un buon attore o un ciarlatano. Un gesto come “uccidere” desta attenzione in sè per sè, per il ruolo che reca in una storia, e con il suo contenuto che grida ci distrae dalla forma; ma gesti consueti come camminare, mangiare o fumare sono portatori della massima difficoltà: per un attore l’obiettivo più arduo da raggiungere è la semplicità; egli deve continuamente esercitarsi con gesti semplici e quotidiani perchè è lì che emerge il modo in cui egli li compie, che è lo specifico della sua arte. Il modo è già stile e, citando Decroux,

“lo stile è una storia“.

Il modo del fare è molto più importante del fare: ecco perchè non esiste gesto che non sia stato ripetuto cento volte per avere il diritto di essere mostrato“. Quando Decroux parla del modo entra nello specifico dell’allenamento quotidiano di ogni attore. Chi entrasse nel dietro le quinte, vedrebbe

“il dramma di creare, quello di obbedire e la costruzione delle cose”.

Creare è trovare idee e trasformarle subito in figure, provare e riprovare azioni fino a fissare quella che soddisfa. Obbedire è copiare una determinata figura data, quella e non altra: un’operazione che chiede maggior inventiva e disciplina di quella richiesta dalla creazione. La figura trovata è una promessa che va mantenuta, e qui entra in gioco l’equilibrio. La trovata più geniale da parte dell’attore deve resistere alla prova del corpo ed essere mantenuta, portata fino in fondo. Quanto Decroux ci dice sul mimo vale per il corpo d’attore in generale: se un attore ha una bellissima idea su un’azione che vuole compiere, non può dimenticare improvvisamente di avere un corpo, il proprio, che sarà il solo modo di veicolare quell’azione. Lo svantaggio, e il privilegio, dell’arte dell’attore, è

la coincidenza tra artista e opera d’arte:

il pittore può mostrare la sua opera ed essere contumace (non pretendiamo di vedere Monet accanto al suo quadro esposto in un museo!), così come lo scrittore, lo scultore, l’artigiano; ma l’attore mostra se stesso,

è egli stesso la sua più grande opera d’arte,

ed ogni suo gesto, specialmente il più semplice, non può venir meno a questo assunto di base. Come ci ricorda Decroux, in questo senso, l’arte del mimo in quanto arte di consapevolezza del proprio corpo, riguarda tutti, interessa tutti:

“essere mimo o non esserlo non dipende da voi, lo siete irrimediabilmente”,

in quanto detentori di un corpo,

“ma dipende da voi esserlo in bellezza”.

Chiunque di noi desideri tornare ad essere semplice, dovrebbe saperne di più sul mimo: l’affettazione è il modo in cui il nostro corpo si porta normalmente nei vari “cerimoniali” che la vita ci impone – famiglia, lavoro, eventi mondani -; noi tutti abbiamo un corpo ma non sappiamo “gestirlo” con naturalezza, ci sentiamo ingabbiati e artificiosi nei gesti.

La semplicità si impara, non l’artificio:

questo ci dice Decroux. Vale per l’attore e vale un pò anche nella vita, a ben pensarci. Se è vero, come sostenevano Rousseau e Tolstoj, che il lavoro manuale educa il pensiero, allora il mimo è il primo dei lavoratori manuali e dei maestri poiché fa del corpo il proprio strumento di lavoro.

“Il corpo è la punta avanzata dell’idea in movimento”

Chiariamo subito un possibile equivoco: quando parlo di corpo d’attore, mi riferisco sempre anche alla voce; Decroux si riferisce all’arte del mimo ma io sono persuasa che le sue considerazioni siano valide anche in riferimento alla voce, che ritengo parte integrante del corpo d’attore. Non è forse corpo, il suono? Non è allenando parti del nostro corpo che governiamo quel suono?

In questo senso, allora, essere un attore significa confrontarsi con la bellezza delle cose semplici, avere il privilegio di fare un passo o mangiare una fetta di torta alle mele come fosse qualcosa di importante ed essenziale. In un tempo in cui la vita ci impone di fare a meno del superfluo, forse l’attore non è inessenziale ma anzi può insegnarci, con la propria arte, qualcosa di prezioso:

fare del poco e del niente il nostro tutto.

(Soliloquio nato dal dialogo con Etienne Decroux, “Parole sul mimo”)

(In copertina: “Il mio Chisciotte”, acrilico e tempera su carta, 30 x 50)