Una storia che brucia in mezzo ai detriti prende forma dalle ceneri come un grido.
Questa storia parlerà di Visione e Rivoluzione e le Voci saranno suoni, parole monche, parole mancate, parole spezzate di bambini rotti, dentro e fuori. Pezzi di bambini.
Condivido l’incipit con voi, pirati e naviganti su mari solitari, perché all’inizio di quest’avventura nel mondo virtuale c’eravate voi: sarò grata a chiunque vorrà dare una parola, un silenzio carico di maledizioni, un graffio, una forchettata alla gola. La scrittura è una faccenda di diottrie mancanti e pelle scorticata dal buio ma per arrivare fino in fondo a certe storie bisogna avere un’idea luminosa, se pur vaga, dell’orizzonte. Ditemi se voi le vedete, all’orizzonte, le vele spiegate. Per ogni scena di questa storia c’è c’è stata e ci sarà una canzone, a dare forma, un demone guida.
Per questo incipit è No Quarter dei Led Zeppelin.
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E quando calerà il buio entreremo nelle vostre stanze e vi uccideremo. Nel sonno, vi uccideremo. Vi uccideremo così come ci avete concepiti: nel sonno nel buio per convenzione senza piacere a occhi chiusi senza chiedere il permesso, una cosa da niente, direte, in ginocchio davanti al santino 35×40 della Madonna, lei sotto lui sopra, banali, veloci, frettolosi, siete stati frettolosi a Natale, dopo una sbronza colossale come dormendo, come fantasmi, perché è così che ci avete generati e svenduti, per caso, nel buio per convenzione senza piacere a occhi chiusi senza chiedere il permesso, perché si deve, perchè serve, per servire l’Impero, una cosa bellissima, i nostri Vecchi saranno contenti, un giorno anche noi saremo Vecchi e potenti e giù a tracannare tavernello e amaretti, ci farà bene, vendere un figlio sarà il modo migliore per stare insieme, sarà il modo migliore per essere utili, servire. Lenzuola nuove ogni giorni, sogni puliti, carichi di speranze, carichi i pannolini, una valanga di sterco e grumi lattiginosi sul maglione, che piacere vedervi crescere e servire questo raggiante futuro. Non avreste dovuto, non così, come una cosa da niente. E sarà terra, e sarà fango. Vi sommergeremo, vi sotterreremo, vi addormenteremo per sempre. Non avreste dovuto addormentarvi. E sarà vento, e sarà aria. Avreste dovuto, nel sonno, immaginare cosa avrebbe significato per noi nascere in questo posto senza avere futuro. Avreste dovuto.
“State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso” (Marco 13,33)
Il piano era semplice: bruciare tutto.
Eravamo gli ultimi rimasti, gli altri bambini erano stati prelevati con il sopraggiungere dell’autunno.
I Gerofanti avevano banchettato giorno e notte con Madri e Padri in vista della grande Celebrazione. Sparizione degli ultimi ribelli, spartizione della forza lavoro: carne fresca, forte, malleabile, flessibile al comando.
Dalle macerie che avremmo sollevato sarebbe nato un impero del quale – si diceva – avremmo fatto parte anche noi. Pezzi di noi, almeno. Era quello che interessava, i nostri pezzi migliori: del futuro eravamo le braccia, le gambe. Di cuore e cervello non si parlava mai. A questo servivamo, a questo saremmo stati addestrati. Dopo di noi, come noi non sarebbe rimasto nessuno. Eravamo gli ultimi rimasti, gli ultimi capaci di fantasia, di visione, di pensiero.
L’orrore iniziò con un palloncino giallo gonfio d’acqua appeso al collo mozzato di una bambina. Quella bambina ero io, almeno credo, non ne sono più così sicura. Mi chiamo Lia, almeno credo. Ho (avevo) nove anni. Quel giorno giocavamo allo sciancatello, come ogni domenica mattina, per trattenere l’illusione – tra una riunione strategica e l’altra, tra una sigaretta e un grappino – di avere ancora undici anni, di concederci il lusso di sbellicarci dalle risate e fare o non fare niente, niente in particolare, per non sentire sempre addosso il peso, la fatica, la responsabilità di salvare qualcuno o qualcosa, qualcuno che eravamo noi – dei quali a nessuno pareva importare – qualcosa che era il nostro futuro – del quale tutti si studiavano di privarci.
Quel giorno la mia testa si staccò mentre sollevavo il piede destro dalla casella numero due disegnata da Pio col gessetto giallo sul cemento crepato. Non atterrai mai più sulla casella numero tre. Non giocai mai più a sciancatello. Non sentii mai più le braccia lunghe di Pio che si slargavano per ricevere il mio corpo, le sue dita che mi pizzicavano le guance fino a farle arrossire, i suoi denti fini fini che mi mordicchiavano il collo e non dirò di più di questo perché fa male. Fa così male ricordare la pelle ruvida, il bacio morbido, lento, alcolico. L’amore imparato per caso, per gioco. La libertà e l’impegno che ci prendemmo di essere grandi subito, di fare sul serio ogni cosa, senza smettere mai di essere leggeri. Una sciabolata. Così operavano i Gerofanti: in coorte avanzavano, la marcetta in stereodiffusione, uno si faceva avanti, staccandosi dal branco, gli altri restavano a guardare, Padri e Madri, Famiglie tutte, sostenendo con canti e inni l’esecuzione; tra questi altri c’erano i bambini prelevati: quella messinscena era soprattutto per loro, faceva parte dell’operazione di Correzione e Revisione finale, era l’ultima tappa, una lezione da imparare sul campo. Eccole, dichiaravano i Gerofanti in coro, le conseguenze per chi si oppone alla nascita e al benessere dell’Impero.
La mia testa volò via in un lampo, e non dico tanto per dire. Un cielo di lampi, vento e pioggia fina fina si portò via la mia testa insieme al mio palloncino preferito che tenevo legato al collo: un pulcino nero che non ricordo più come si chiami, ho dimenticato il nome. Il suo, il mio. Ricordo solo il suono – Lia – ma non sono sicura e sono certa che manchi qualcosa. La mia testa si infilò nei cubi del palazzo di Paloma, poi uscì e continuò a svolazzare. Lontano. Il resto del corpo crollò tra le braccia di Pio: almeno fu questo che i miei occhi, prima di sgusciare fuori, videro. Io, che conoscevo così bene la sensazione di crollare nel suo abbraccio, non sentii niente.
Non riesco a dimenticare gli occhi di Paloma. Dicevano: è finita, ci siamo creduti forti ma è finita, in fondo l’abbiamo sempre saputo, siamo stati pazzi, siamo stati assurdi, siamo stati avventati, avremmo dovuto lasciar perdere, avremmo dovuto piegarci, avremmo dovuto dire ai bambini di non illudersi; cosa abbiamo fatto? Cosa abbiamo fatto – maledette che siamo, ci siamo spacciate per la loro unica speranza – cosa abbiamo fatto a questi bambini?
Avrei voluto dire a Paloma che non era colpa sua, che tutto doveva accadere, che le Pitonesse sarebbero state la nostra salvezza ma allora neanche io sapevo. I Gerofanti sospettavano qualcosa su dove potevamo esserci nascosti, sapevano che ero l’unica della Ganga a possedere una memoria formidabile: molto prima di portare i bambini nel centro di Correzione e Revisione, avevano privato le famiglie dei libri e di ogni dispositivo che permetteva di studiare e imparare parole e idee divergenti da quelle stabilite dalla Gerofania. Io, che avevo letto e imparato pià degli altri, e prima, ricordavo ogni cosa: sapevano che, se esisteva una minaccia da fuori, non erano le Pitonesse né Pio né Mia. Ero io. Io sapevo, ricordavo. Ero diventata pericolosa.
***continua***