Volevo scrivere di Bolaño e Bernhard e finalmente ne scrivo ma non concludo Parte 3

Leggi qui (ma non è essenziale farlo e, anzi, ti suggerisco di lasciar perdere) Parte 1 e 2

Una sbronza colossale, una botta, una bella bevuta, un basso che seduce, un bastone che percuote al ritmo di un Be-bop-a-Lula scanzonato e serissimo.

Se dico “B”, se dico colossale e se dico scrittori, tutto nella stessa frase, cosa vi viene in mente?

Una “B”, anzi due, intendo. Bernhard e Bolaño.

B1 e B2, una volta per tutte, per intenderci da qui in avanti.

Non ho ancora finito di leggere né Estinzione2666 ma, si capisce, il vero scrittore sa lanciare nelle prime pagine tutto ciò che – stile e storia – approfondirà, preciserà e scioglierà nelle centinaia che seguono.

B1 è la prosa incalzante, il ritmo, la danza sfrenata e raffinata della voce narrante ossessionata e ossessionante. Una voce che ti afferra dilettandosi della presa implacabile e dilettandoti ti trascina per i capelli, ti sbatte contro il muro della sua, e della tua, nuda coscienza, da un pensiero ricorsivo all’altro, quel pensiero inconfessabile che tu stesso nutri e non vuoi esprimere e che questa voce si fa carico di esprimere al tuo posto.

Una voce che è insieme direttore d’orchestra e musica.

Non si fa scrupoli a gettarci nel caos, questa Voce. Capiamo che un po’ ci disprezza, un po’ ci crede inferiori, perché noi tutti siamo sicuramente, e bisogna che così ci sentiamo, dinnanzi a questa Voce: stupidi, inferiori. Oppure ci inorgogliremo sentendoci esattamente come lui: diversi dalla massa, superiori. In ogni caso, non se ne esce illesi.

Per sciogliermi dalla morsa di B1, mi concedo qualche balzo dentro 2666 di B2 e di nuovo la sbronza, la botta, la bevuta, il basso ma stavolta con meno bastone e più Be-bop-a-Lula. Prendiamo l’ironia, per eempio. B1 non ne è privo ma vola sempre alto con i contenuti mentre B2 ha questa capacità di sorprenderti tipica degli squinternati e degli scrittori sudamericani – che poi sono la stessa cosa – dicendonti che uno “cacava in un bagno orribile” subito dopo aver specificato che “Arcimboldi si rivide, giovane e povero, in una chambre de bonne”. Ammettiamolo, non ti aspettavi che uno nella chambre de bonne potesse “cacare”. La qualità di B2 è spiazzare, mescolare, oscillare tra alto e basso.

Anche B2, come B1, ama le ripetizioni, quel circuito iterativo di parole e di espressioni che non lascia scampo. La voce del narratore, nei suoi pensamenti e nelle sue ruminazioni incessanti, nei suoi spassosi sballottamenti, ti fagocita.

Cos’altro hanno in comune B1 e B2, affabulatori invincibili?

Sono guitti sulla pagina, hanno una presenza onnipervasiva, dominano la scena, si fanno notare sul piancito in cui si agitano una miriade di creature.

Entrambi sanno edificare impalcature mastodontiche in forma di romanzo-mondo. Fin da subito hai la sensazione che i personaggi esistano da sempre, dentro e fuori la pagina: che abbiano già una storia, e una vita, che li precede.

Curiosità da nulla: noto che entrambi parlano dell’Italia nei loro libri.

Leggere del mio paese nelle opere di scrittori che amo, in un periodo nel quale vorrei fuggire, mi aiuta a sopportarlo meglio, il mio paese. Mi aiuta a guardarlo, e guardarmi, con occhi stranieri.

Altro talento di B1 e B2 , come dei grandi in generale, è far aggallare nelle loro opere i libri degli altri in modo fluido, senza cadere in un forzato citazionismo. Quando si scrive è difficile far scorgere tracce di grandezza dietro alla propria “storia qualunque”: lo scrivente inesperto è uno che maneggia citazioni e riferimenti colti in modo maldestro, uno che infilerebbe frasi di Dostoevskij e Kafka alla rinfusa e in modo sgraziato solo per darsi un tono, per così dire.

La letteratura di oggi si confronta sempre con i giganti di ieri. Lo scrittore onesto sa di non aver inventato nulla e ammette – come direbbe David Bowie, per scivolare nel pop – “non sono originale. Sono un ladro di buon gusto”.

B1 e B2 sembrano darci continuamente lezioni di buon gusto.

Chi, nella propria scrittura, ha assorbito e rielaborato anni di letture, non ha bisogno di citare frasi dei maestri ma piuttosto lascia fluire sulla pagina il pensiero degli autori dei quali si è nutrito.

È qui che sta la differenza tra un dilettante e un gigante della scrittura.

(Seguirà parte 4, 5, 6, vedremo come – e se – andrà a finire)

Immagini dal web: foto profilo di R.B. e T.B.

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A bordo del Pequod con Cocco Bill

«Sorrideva di imbarazzo, mio padre, mentre nel sogno di questa notte mi guardava negli occhi. C’era una porta, di fianco a noi, e quand’egli mi chiese se sapevo cosa ci fosse dietro io risposi che non volevo entrare.

“Non ti ho chiesto se vuoi entrare, ma se sai cosa c’è dietro”.

“Meglio che non lo sappia mai papà, se c’è qualcosa d’ignoto sarà orrendo, se c’è qualcosa di familiare sarà triste”»

“Tu, sanguinosa infanzia”, raccolta di racconti brevi, incarna la compulsione del Michele Mari lettore onnivoro e la sua smania catalogatrice. Non ci prova nemmeno a nascondersi, la sua presenza è onnipervasiva. Ogni racconto rappresenta il corpo a corpo dello scrittore con i libri e gli oggetti amati nell’età che forma il desiderio. L’autore si muove danzando tra i marosi e, come nelle copertine della collana Urania, mescola violenza e incanto: amante del lessico aulico, divoratore di colossi della letteratura e fumetti, passa dalla “incruenta lusinga di un decorativo grafismo che radendo a volo la crosta terrestre tutta la coprisse di sempremai nuove curve” a Tintin, Cocco Bill, L’uomo mascherato, Mandrake Nembo Kid, Linus e il primo Paperepopea.

L’imperativo è chiaro: restare fedeli al bambino.

Il mantra è esplicitato a pagina quattordici:

“E ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte”, che sia una macchinina di metallo Mercury, un Winchester da 50 cm di tuo padre, un fortino di legno, un mazzo di figurine di calciatori, gli album di Cocco Bill, i pezzi di un puzzle, le copertine di Urania (collana della quale elenca tutti i titoli), le canzoni degli alpini con le loro “smusicate parole”. Oggetti disseminati qua e là muovono l’azione e stimolano il ricordo. Il mito dell’infanzia è tutto e ogni cosa diventa mito, se guardata con l’agio della distanza.

Nel racconto “L’orrore dei giardinetti” mitologici sono appunti i “giardinetti” in cui si consumano gli svaghi pomeridiani dei bambini: luoghi che si trasformano in “inospiti lande steppose, e pur si millantano in un vezzeggiativo che al buon ragionare trasmette un’idea di abbindolamento, di chi sa mai quale insidia”. E’ lì che vagano le tremende creature, le Antiche Madri, “chtonie come Matres Matutae”, intente a lavorare a maglia mentre si danno al loro “scalcagnato chiacchericcio”.

L’impalcatura si regge sul contrasto: se la materia trattata è, per così dire, umile, semplice, quotidiana, il lessico è alto, ricercato, specialistico; il dispositivo onirico, che trasfigura ogni oggetto, restituisce un’aura epica ai gesti più comuni. Da un punto di vista stilistico ho apprezzato questo libro anche, e soprattutto, perché tradisce ogni regola raccomandata e raccomandabile sull’uso degli aggettivi: “adoperare con cautela”, dice la regola. Mari ne affastella uno dietro l’altro, si diverte con gli elenchi e può concedersi questo lusso perché ogni parola giganteggia (quasi) come un personaggio. Quando leggo ho l’abitudine di appuntare sulle pagine bianche alla fine del libro le parole che non fanno parte del mio vocabolario attivo o delle quali non conosco le sfumature. In questo caso ne ho segnate cinquantadue, alcune delle quali specifiche del lessico marinaresco.

Un tripudio di balismi, putrelle, velabri, medulla, bompressi e bastinaggi, osteriggi e sule, per non parlare di pagina ventuno con i mostri di ogni genere e forma stampati sulle copertine di Urania (potete saltare l’elenco ma consiglio la sbronza da lettura rapida): loricati e squammosi, catafratti, pelosi, bavosi, mucosi, ungulati, fiammanti, bituminosi, lobati, crestati, gassosi, colanti, informi e deformi, araldici, immani, abominevoli, solinghi, aggruppati, prognati, deliranti, insinuanti, chtoni, zoomorfi, cachinnomorfi, metafisici, ulcerati, ... e qui mi fermo ma ne restano appena altri sedici.

Spesso l’autore si diverte a ripetere lo stesso identico concetto usando parole differenti, lo vediamo gongolare sulla pagina e invadere la narrazione con la propria presenza. È il marchio inestinguibile del professore universitario o della persona colta che non teme di sfoggiare un vocabolario ampio e farci fare un giro sulle montagne russe delle parole. Capita pure, qualche volta, che le scelte lessicali finiscano per essere un elemento distraente rispetto alla parte drammatica e troneggiare rispetto alla storia ma glielo perdoniamo. Se ti perdi nella vertigine e nel suono delle parole puoi sempre ritrovarti aggrappandoti a un’immagine evocata capace di dialogare con immagini-ricordo della tua sanguinosa infanzia.

In questo senso, gli oggetti-mito racchiusi nel libro identificano una sorta di lettore ideale.

Leggo il libro di Mari in un periodo in cui frequento il Porto della mia città e mi ritrovo spesso a chiacchierare con i pescatori, osservare le loro mani, guardarli mentre attendono di salpare. In Moby Dick e Gordon Pym ritrovo i loro volti bruciati dal sole e le loro dita callose. Li osservo, immagino di imbarcarmi su un peschereccio, vivere una vita raminga. Torno a Poe, Salgari, Melville e compagnia cantante, nella mia mente si rincorrono le loro voci.

Quello che mi ha convinta meno del libro? I finali di alcuni racconti. A Mari perdoniamo anche questo. Sia perché il finale dell’intero libro è efficace, oltre che intriso di estrema dolcezza, sia perché il valore di questo libro non è tanto nella trama quanto nella scelta delle parole, delle immagini-mito e nelle riflessioni che l’autore costruisce intorno a elementi minimi come una macchinina, il pezzo di un puzzle, un fortino di legno.

Una domanda per gli ossessionati dal mestiere delle parole muove l’azione del racconto “La freccia nera”. La domanda: come cambia un libro, lo stesso libro, se cambia la traduzione? Si tratta davvero dello stesso libro? A porsi il quesito è il protagonista bambino, sommerso da un misto di senso di colpa e vergogna per aver letto un’edizione de “La freccia nera” prima che il padre gliene regalasse un’altra. Il regalo è simbolo del loro legame, perciò gli dispiace di aver già letto il romanzo ma subito dopo pensa che no, in fondo non lo ha letto davvero. Parole diverse, traduzioni diverse, libri diversi, conclude il protagonista: il libro che ha letto non può in alcun modo essere lo stesso regalatogli dal padre.

“…bastava che anche una sola parola fosse diversa da una traduzione all’altra perché l’intima sostanza dei due libri non fosse più sovrapponibile: allora io avrei potuto rileggere la Freccia nera come fosse una nuova storia, e la stortura cosmica che tanto mi stava facendo soffrire sarebbe stata raddrizzata.”

“Tu, sanguinosa infanzia” è un libro di parole che riflettono sulle parole.

E allora decido di rubarne tre dal testo per dimostrarlo a me stessa.

Scelgo la parola “parola” – celebrata in un frammento poetico de “La pazza della porta accanto” di Alda Merini – e la sua etimologia latina “parabola” “similitudine” (in greco παραβολή, a sua volta derivato da παραβάλλω ossia confrontare, mettere a lato). La parola è sempre associata all’oggetto o all’azione cui si lega ma di per sè è solo suono e segno. Quando si fa una selezione così precisa delle parole, come quella che Mari opera, il testo penetra in chi legge su più livelli: emotivo, carnale, evocativo, simbolico, sonoro, intellettuale. Non si esce illesi dal peso specifico di ogni termine: l’intero libro è basato su questa scelta della parola esatta a tal punto che l’autore la pone come tema di un intero racconto, il già citato “La Freccia nera”.

La parola crea la realtà nella quale chi legge viene accompagnato o scaraventato.

Scegliendo parole desuete o attinte a un lessico settoriale Mari ottiene già un effetto straniante in termini di spazio e tempo. L’obiettivo è catapultare il lettore in un tempo perduto, quello bambino. L’effetto di straniamento e la tensione onirica sono la cifra della narrazione.

Un termine come”batrace” (al posto del comunissimo “rana”) ci parla immediatamente di un mondo diverso dal nostro, meno “quotidiano”, anche quando sappiamo (e ci viene continuamente ricordato) che le storie che leggiamo hanno come protagonisti bambini che giocano al parchetto e altre cose amene.

“C’erano una volta otto scrittori che erano lo stesso scrittore”

Così comincia “Otto scrittori”, il racconto dedicato all’agone tra i grandi della letteratura del mare. Qui il tono è fiabesco. Otto voci sono una sola Voce. Cosa dice questa Voce? Lo scopriamo leggendo. Tra gli otto colossi si innesca una gara. Nella penultima sfida Conrad e Stevenson si incontrano a metà strada, nel Pacifico, e mettono i loro libri sul piatto della bilancia. Vince Stevenson con un solo libro (capito quale?) che pesa più degli otto di Conrad. Il punto di vista dell’autore è chiaro: un solo libro di Stevenson ne vale otto di Conrad. Il narratore fa da mediatore. L’ultima sfida, la più epica, vede contrapporsi Mellville e Stevenson. L’esito è schiacciante. Secunda Dass, il messo di Stevenson, così parla di Melville al narratore (il quale si trova su un monte in esilio per non assistere alla lotta finale tra i due giganti della letteratura).

“…questo noi tutti e uomini e pesci ed uccelli abbiamo capito, che un libro come quello nessun uomo può averlo scritto perché quel libro è l’Apocalisse e la sua parola è antica come il boato della Profezia e il suo respiro è il rantolo degli Angeli caduti, e di fronte alla sua immanità tutto è come scherzo di fanciulla e di fronte alla sua smisuratezza tutto è come madrigale”.

Così chiosa la voce narrante definendo il colossale romanzo sulle balene:

“…quel libro in cui i simboli esercitano sul lettore quasi una violenza fisica; quel libro che sembra aggirarsi lentamente intorno al suo tema quando invece è il tema che gira intorno a noi in spire sempre più vorticose; quel libro impuro che travolgendo le regole è nel contempo romanzo, trattato, poema, diario di bordo, tragedia, sacra rappresentazione, ballata; quel libro che interroga incessantemente la Morte incalzandola da presso come la lancia dei ramponieri incalza l’immensa bestia; quel libro dello squarciamento e del colamento, dell’urlo e della demenza, del tormento e della dannazione, no, quel libro non poteva essere stato scritto da un uomo, e per questo io pronunciai “Herman Melville” come avessi detto Aleph o Adonai”.

Eccola, la seconda parola sulla quale mi voglio soffermare. Aleph, dall’ebrarico «toro», è il nome della prima lettera dell’alfabeto ebraico indicata nella scrittura con א. In matematica, indica la potenza di un insieme. Un’altra parola che parla di parole, simbolo di un insieme di segni.

Alla fine del racconto tutti i partecipanti alla sfida – Defoe, London, Conrad, Poe, Salgari, Verne, Melville, Stevenson – si imbarcano sul Pequod. Un’immagine difficile da dimenticare.

Una parola che, come molte altre, ho adorato per il suo potere onomatopeico (onomatopeica è anche la sua orgine) è “sbroffare”, variante di sbruffare, che sta per “spruzzare un liquido dalla bocca o dal naso” ma anche, in modo figurato, “raccontare fatti esagerati e poco credibili, vantarsi, fare lo sbruffone”. Nel gergo dei muratori, sbroffare significa lanciare con la cazzuola la malta su una parete per poi stenderla successivamente. La parola che si fa corpo indica l’azione del “gettare fuori” in vari modi e c’è il richiamo al gettare fuori tipico del raccontare, del parlare.

Nel racconto “Certi verdini” tutto parte da un’azione-ossessione: fare e disfare un puzzle, gesto che riconduce alla metafora del gioco e della vita. La nobilitazione di un’azione semplice simbolo del senso di discontinuità dell’essere. “Puzzle” è la parola-suono inglese per “enigma”, “rompicapo”. Come non pensare a Perec, “La vita istruzioni per l’uso”?

«Solo i pezzi ricomposti assumeranno un carattere leggibile, acquisteranno un senso: isolato, il pezzo di un puzzle non significa niente; è semplicemente una domanda impossibile, sfida opaca; ma se appena riesci […] a connetterlo con uno dei pezzi vicini […] i due pezzi miracolosamente riuniti sono diventati ormai uno. La soluzione del puzzle consisterà solo nel tentare via via tutte le combinazioni plausibili. L’arte del puzzle inizia con i puzzle di legno tagliati a mano quando colui che li fabbrica comincia a porsi tutti i problemi che il giocatore dovrà risolvere, quando, invece di lasciare che il caso imbrogli le piste, vuole sostiituirgli l’astuzia, la trappola, l’illusione […] malgrado le apparenze, non si tratta di un gioco soliatrio: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro»

Madre e figlio protagonisti di “Certi verdini” costruiscono il puzzle solo per distuggerlo. Portano alle estreme conseguenze l’ossessione mescolando i pezzi del puzzle e lavorandoli al buio. Per svagarsi, si sfidano a indovinare di quale puzzle si tratti a partire da un singolo pezzo.

“La solitudine… La solitudine del prigioniero, la solitudine del demiurgo. Seguendo le orme materne imparai la frammentarietà del mondo e la discontinuità dell’essere, imparai ingenuamente le vie della gnosi, imparai che non si dà sapere che non riconduca il molteplice all’uno e non dia forma all’informe; (…) che sconnesso dalla sua sede ogni ente decade”.

Anche in questo gioco ossessivo di madre e figlio veniamo ricondotti all’essenza della narrazione:

“Non c’è molt’altro, nella vita.

No, è quasi tutto laggiù”

Laggiù, nella sanguinosa infanzia e in tutti i ricordi che essa, come un fiume in piena, fa aggallare.

Così si chiude il libro, nel giardino di un ospizio, con un botta e risposta nostalgico e ironico tra due vecchietti in una sera d’estate del 2030.

Il libro del quale (non) ho fatto la recensione è Michele Mari, “Tu, sanguinosa infanzia”, Einaudi

Io, Cyborg

Lui è Neil Harbisson, classe 1982, artista britannico affetto fin dalla nascita da acromatopsia (incapacità di distinguere i colori).

Mentre studia arte al college, il giovane Neil, appassionato di cibernetica, inizia a sviluppare insieme a Adam Montandon, informatico, il progetto eyeborg, un’antenna dotata di un sensore in grado di trasformare le onde dei colori in 360 onde sonore.

Neil vuole migliorare la propria condizione “difettosa” così propone il progetto a diversi medici ricevendo solo porte in faccia. Alla fine trova un dottore disponibile ad operarlo nel suo giorno libero in cambio dell’anonimato assoluto: l’impianto eyborg viene agganciato al cervello del ragazzo.

Per Neil entrare in un supermercato significa sperimentare la discotecalabirintograndesenzaluci colorate ma solo suoni, un concerto di vibrazioni associate ai colori grazie a un algoritmo che mette in relazione le due misure, onda luminosa e onda sonora.

Dovete immaginare che Neil è un artista visuale. Neil sente la vita in un modo che nessuno di noi può comprendere.

Nel 2004 incontra qualche problemino con il rinnovo della carta d’identità ma, grazie alle testimonianze di amici, colleghi e medici, ottiene che venga riportata la sua foto con tanto di antennina impiantata nella testa.

Neil Harbisson è il primo cyborg riconosciuto ufficialmente per legge da uno Stato.

Oggi il dispositivo, che ha subito evoluzioni, è anche bluetooth e può connettersi al wi-fi dal 2012. L’hanno pure hackerato.

“Non sono un uomo, non posso più definirmi tale. Sento gli infrarossi e gli ultravioletti, frequenze di colori invisibili agli uomini”, ha dichiarato in una recente intervista.

Quale che sia la nostra posizione al riguardo, sarebbe il caso di iniziare a informarsi.

Sono forse due le direzioni essenziali per l’essere umano?

Autodistruzione o evoluzione del nostro corpo in ibrido tra uomo e macchina?

Alla fine dell’intervista Harbisson punta tutto sul fattore etico, sottolineando come fino ad oggi l’uomo sia stato folle a voler modificare il pianeta fino a consumarlo, e afferma: “nel futuro sarà normale cambiare noi stessi, modificare il nostro corpo, non più il pianeta.”

Ci sono molte domande aperte e il fattore etico spesso si inserisce nel dibattito. Viviamo in un tempo in cui uno degli uomini più potenti del pianeta, Elon Musk, ha presentato di recente Neuralink, un microchip da impiantare nel cranio per collegare la mente umana ai computer. Il suo operato è finito sotto la lente del Physicians Committee for Responsible Medicine (Pcrm), associazione no-profit operante nel campo della tutela dei diritti degli animali nella medicina.

L’ennesima follia di un uomo che si crede dio? Forse.

Intanto, la startup continua la sua corsa dal 2016.

Sarebbe utile tenere uno sguardo lucido su quanto sta accadendo.

Ci sarebbero molte letture sul tema ma tanto per cominciare ne consiglio tre che affrontano il tema mente-uomo-macchina da diversi punti di vista.

Per cominciare, un viaggio tra i secoli con

Simone Belvedere, Mens extensa, Lekton edizioni

Poi un testo agile e godibile su come il pensiero influisce sul funzionamento del nostro cervello:

Michel Le Van Quyen, Il potere della mente, edizioni Dedalo

Infine un saggio specificatamente dedicato al transumanesimo:

Selenia Anastasi, Verificare di essere umani, Lekton edizioni

(Immagine di copertina dal web)

Frantumi approda su Suite italiana

Riapre oggi la rivista letteraria Suite italiana che inaugura il nuovo inizio con l’articolo Psiche in mille pezzi e mondo onirico: una riflessione su Frantumi, una recensione della scrittrice Ilaria Palomba su “Frantumi”, Lekton Edizioni, 2021.

“Morgana Chittari è riuscita con Frantumi (Lekton edizioni 2021) a dare voce a una voce, anzi per l’esattezza a quattro, ciascuna delle quattro è suddivisa in più personaggi. Così è composto questo singolare libro di racconti e poesie sperimentarli, dove ogni voce, ogni brano è uno scorcio di presente, ma anche di altrove, di un disagio (oserei dire, freudianamente, della civiltà) più generazionale che individuale. Ricordi di famiglie d’altri tempi, bische di provincia, incontri amorosi di un istante (che sono poi incontri con sé stessi), giocatori d’azzardo, morti che tornano come spettri per presenziare al proprio funerale, storie di fughe dai propri più intimi desideri, amori infelici, ma soprattutto pensieri. È una scrittura fatta soprattutto di pensieri, e non è difficile scorgere in queste voci una fascinazione per certa letteratura e poesia viscerale, violentemente intima, lirica a tratti; penso soprattutto alla Nin, alla Pizarnik e alla Lispector, ma sorprendentemente alcuni racconti – il primo per esempio – mi hanno fatto pensare a Purdy, per il modo in cui l’osceno entra in scena stravolgendo e…”

La recensione continua sulla rivista letteraria Suite Italiana: https://suiteitalianalt.blogspot.com/2022/01/psiche-in-mille-pezzi-e-mondo-onirico.html

Dust to dust I gasp for air

“…arrendersi, no, ma,
fatti miei, alla fin fine,
che affondo in un amore da canzone:
che ogni sguardo mi è una rivoluzione…”

Michele Trevi, quindici anni, venti poesie. Stop. Fine. Uno qualunque, come te e come me. Tutti giovani tranne lui, tutti giovani tranne noi. Inesistenza che insiste e genera storia, assenza che è essenza dell’azione di chi resta. La morte, nel raccontare, è inizio di ogni cosa: della creazione e della creatura, mostro (s)fatto di brandelli “si erano mangiati a vicenda nel tentativo disperato di liberarsi”, brandelli di mille creature intrecciate l’un l’altra.

Come dopo aver letto Binari di Monica Pezzella, i muscoli dello stomaco mescolano le Voci con gli acidi e gli enzimi per disintegrarle ma pezzi di corpi schizzati fuori restano incollati alle pareti dell’intestino. Non vanno giù. Così ho messo in cuffia “Raise the dead” e “War” dei Bathory, in loop, ho riletto le poesie di Michele Trevi, qualche passaggio de “La Bella e la Bestia” e ho iniziato a scrivere.

“Dust to dust
I gasp for air
I scream for sight
and fight against
torment and dread
Calling the vengeance
I tear at the lid
and promise to raise
from the dead

Raise the dead

Chi è Mimì? Un corpo: la gobba. Una lettera: “B”.

Bestia basta bara. Come un singhiozzo, e Mimì infatti piange e spara e ad ogni lacrima, ad ogni colpo di pistola ti ficca la sua “b” in gola come un montante ben assestato sul busto, dritto al plesso solare, di quelli che quando arriva, letteralmente, ti spezza il fiato. E ti senti morire.

Con rigore geometrico e allucinato Mimì piange e uccide, uccide e piange, con quel nome, Mimì, che fa quasi tenerezza: una specie di miagolìo, squittìo pietoso, un suono squillante: Mimì.

Fa quasi ridere, quel nome, fa pisciare nelle mutande dal ridere. Che cazzo di nome per un boss, Mimì. Una cosa da niente, una nota stonata. Ma è dallo scarto tra suono e senso delle parole, è dal conflitto che nasce il grido, nasce l’orrore.

“è un soffitto ammuffito e senza voglia,
è una geografia di una qualche vita
lasciata non finita su una soglia,
atroce e uguale mentre tutto cambia –
e mai il coraggio di un colpo di grazia,
e mai il coraggio di un colpo di grazia.”

Chi è Veli? Il guardiano che è anche il prigioniero.

Veli gettato lì nel capanno come un sacco di munnizza, abbandonato, deve controllare Nicole, la sconosciuta alla quale sovrappone l’immagine della donna amata, Arianna, altra assenza alla quale un personaggio si rivolge.

Perché tutti, in questo libro, in un modo o nell’altro, parlano ai morti, passati e futuri, agli assenti, o agiscono per causa loro.

Ai vivi non c’è niente da dire, con i vivi bisogna agire: prendere la pistola, il coltello, e agire.

Anche le parole sono una maschera. Una forma altra della stilettata.

E che nome è Veli? Un suono delicato, che scivola, lento, quasi patetico nel suo dolore.

“nei corridoi liceali
dove c’è penombra di anime e cuori
e cazzi sui muri e banchi scheggiati

e le ore si contano e i passi pure
in ogni aula un pianto o una risata
e mai mai mai io mai così tanto vuoto
lontano crepato non so cos’altro
(sono una nazione invasa da chiunque
una canzone stonata da chiunque
truciolato mangiucchiato da chiunque
ma specialmente ovviamente da te”

Chi è Nicole?

Qualcuno da accusare, qualcuno da rinchiudere, qualcuno su cui pesano simulacri di altri corpi, corpo che muove pensieri e e azioni. Per lei Michele suo – così dice, così pensa Mimì, come un’ossessione – per lei si è ucciso.

Come Nicole anche Arianna è prigioniera – Nicole nel capanno, Arianna nella propria casa –  e come Arianna anche Nicole vuole fuggire. Su di lei Veli sovrappone l’immagine di Arianna, si diceva. Nicole è corpo-funzione: genera ricordi, pensieri, azioni, sensazioni.

Nicole è corpo che trema, che ha paura del ricordo del corpo morto di suo padre, non della propria morte: se anche sopravvivesse dovrebbe convivere con il pensiero del corpo del padre.

Suddenly powers comes
from within
Muscles and mind are
filled with wrath
I burst out in frenzy
powers of hell
and break up the
tomb and the dark

Raise the dead”

Chi è Marta? Madre, di Arianna e Michele. Un suono, qualcosa di duro con “tr” e “dr” dentro ma anche qualcosa di dolce con “ese” “ase” e “sf”: una pietra, madre, misteriosa, pietra di una cattedrale, con cui furono costruite “le chiese e le case più vecchie del paese (…) quella pietra che si sfarina appena la sfiori”.

Marta odia Arianna – madre che odia figlia, e non diciamo come – ma è solo una delle tante forme di odio.

Qui tutti hanno o cercano qualcuno da odiare, qualcuno da uccidere, qualcuno da amare.

“…eapers and vultures
Demons
stand up
and chime the bell

Raise the dead”

Dove si muovono, parlano e pensano i personaggi?

C’è una casa, una famiglia – per tutti casa e famiglia = rifugio, cura, protezione.

Qui casa, qui famiglia = abuso, sopruso, violenza, omicidio, canna della pistola in gola, sparo, bestia, bara.

C’è un capanno abbandonato, topi morti, wurstel scadenti e mele, spazzatura, un coltello, sangue, polvere, escrementi: il luogo meno sicuro diventa rifugio, luogo dove il gioco, la tenerezza, la cura tra due esseri umani – che non sono famiglia eppure per un attimo lo sono – sono ancora possibili.

Quali esseri umani? Veli e Nicole, guardiano in gabbia e prigioniera.

Dentro il capanno si sta al sicuro, almeno finchè le due linee narrative, quella dentro e quella fuori, si intrecciano: la bestia irrompe.

“A crack of thunder, a smell of death
the wind of mayhem blows
Heaven in its final breath
and God lose all control

Prayers for mercy cries for help
won’t stop the blasphemy
Our troops emerge the sacred throne
and the victory is complete”

Perché ho scritto?

Per liberarmi di questi personaggi e di queste voci che mi si appiccicano addosso come bava di topo, un topo che ha qualcosa che sa di tenerezza.

No, meglio, di delicatezza.

Michele, ragazzo poeta che vola come Birdman dal settimo piano, vola ma non si è mai schiantato: continua a volare.

Scrivo perché questo libro ha conquistato un lettore per niente facile (uno che non leggeva da tempo).

Perché? Gli chiedo. Per il ritmo, dice: è come un rif di chitarra.

Io sono una lettrice, non conto; ma se un musicista dice che in questo libro si sente il suono delle parole significa che è vero. E questa volta, su questo libro, siamo tutti d’accordo. Abbiamo tutti ragione. È una cosa bellissima: avere ragione, intendo. Significa che questo libro è arrivato dove doveva arrivare. A tutti.

Scrivo pensando alle voci di Faulkner in Mentre morivo.

Scrivo pensando a come questo romanzo sia stato scritto: per essere divorato, fagocitato, ingurgitato come una puntata di Black Mirror, tutto e subito, forgiato nel ritmo sincopato dei nostri giorni, in quella danza indiavolata che è il nostro fruire i prodotti seriali, l’arte, la vita.

Un ritmo spezzato, ossessivo, fatto di personaggi creati per esistere fuori dalla pagina. Come lui

Michele Trevi.

Andrea Donaera padroneggia i dialoghi, e il loro alternarsi con i monologhi interiori, in modo straordinario. Non ho mai letto uno scrittore contemporaneo che sappia farlo con tanta leggerezza.

Penso che Andrea volesse che ricordassimo che questo libro è nato per la scena, per il teatro: non c’è pericolo che ce ne dimentichiamo.

Anche Andrea, come Michele, ha deciso di esistere dentro e fuori/oltre la pagina e sembra dirci, come scrittore: la scrittura deve tener conto dei tic interiori dell’epoca frantumata che stiamo vivendo e un libro, se “pretende” di essere letto oggi, deve trasformare questi tic in segno grafico sulla pagina e portare dentro il libro le forme di narrazione che libro non sono.

Andrea è scrittore-mente pensante-aggregatore culturale: lo seguo da qualche tempo, sento che parla un linguaggio che molti che non scrivono possono capire per poi arrivare ad altro. Andrea dice “ca**” e ride (ho provato a contare le volte in cui dice “ca***” e ride nel suo meraviglioso podcast ‘Ntrame, ho perso il conto) e non lo fa per posa, per fare il giovane o per sentirsi giovane, per strizzare l’occhio a qualcuno: parla come pensa, traduce dal dialetto (dice) e intanto cita Gospodinov e Amelia Rosselli con disinvoltura.

È uno che sa perché scrive e cosa significa scrivere in termini di perseveranza e dedizione ma è anche, lungi dagli stereotipi dello scrittore elitario, uno che non ha rinunciato a dialogare con le ferite-persone del presente e dar loro dignità nei libri.

La morte è disseminata ovunque nel suo libro: morte fisica, violenta, morte veloce o lenta, inesorabile, morte che genera vita e genera storia.

La morte fa scrivere. L’arte nasce dalla paura della morte e nasce per sfidare la morte, giocarci al biliardino (non a scacchi, troppo intellettuale).

“Io sono la bestia” è una discesa agli inferi ineluttabile, senza risalita, senza morale e consolazione finale (ché in letteratura morale e consolazione sono la cosa peggiore).

Andrea Donaera infila dentro la sua storia i mostri che percepiamo come vicini, possibili, umani troppo umani proprio perché ce ne mostra le crepe e le incrinature.

La bestia sono io, la bestia sei tu. Se tu vuoi sopravvivere devi essere più bestia della bestia.

Alla fine del libro tutto ricomincia dal punto in cui era iniziato. Come ho scritto per il romanzo di Monica Pezzella, Binari. L’inizio dalla e nella fine.

Senza finire.


“…e in tutte le piazze ti vedo, e spero,
di smetterla coi sogni
di te stesa bocconi
uguale a me: che ti amo
perché non amo me,
ma io non ho che me.”

Il libro del quale non ho fatto la recensione è “Io sono la bestia” di Andrea Donaera, NNE Editore

Brani musicali citati (in inglese):

Bathory, War; Bathory, Raise the dead

Frammenti citati (in italiano):

Michele Trevi – Quaderno d’addio
20 poesie alla Bella N.

Immagine di copertina: Poster dei Bathory (citato nel libro di Andrea Donaera)

Wes Anderson, il mago cantastorie e il verme nella mela candita

Esiste un modo di raccontare che solo Wes Anderson conosce.

Lasciamo perdere questo cast, che da solo basterebbe a strappare la promessa di un capolavoro.

Un cast costruito come coro in cui, al contempo, ogni singolo elemento ha la sua occasione (mai persa) per brillare: Benicio del Toro, Frances McDormand, Adrien Brody, Tilda Swinton, Saoirse Ronan, Léa Seydoux, Owen Wilson, Bill Murray, Willem Dafoe, Edward Norton, solo per dirne alcuni.

Wes Anderson è un amante delle parole e della scrittura: la voce narrante è quella del cantastorie che vorresti sul comodino, in miniatura, accanto alla candela accesa, ogni notte.

In questo film tutto parte da un necrologio e non c’è storia più vecchia, più “già sentita”: la storia inizia dalla fine, dalla morte, la fine di un essere umano. E la morte genera vita e genera colore.

Un film che non è un film perché è dipinto: affresco, murales, pittura. Il corpo di Lea Seadoux, qui musa di un galeotto pittore, che ricordavo ne “La vie d’Adele” e nei miei sogni adolescenziali umidi di blu, blu, blu ovunque. Ma in questo film Wes si supera e passa dal linguaggio cinematografico a quello del fumetto con abilità, mai a sproposito e sempre a sorpresa.

Tre capitoli, una storia che sono tre storie: il pittore galeotto e la sua guardia carceraria/musa; l’amore tra una cronista ultraquarantenne e un adolescente nel caos della rivolta studentesca del maggio del ‘68; il rapimento di un bambino e un grande chef che salva le vite e i palati di tutti. Tutto condito con ironia.


La città di Angoulême, nella Nuova Aquitania, dove il film è stato girato, viene trasformata in un palcoscenico teatrale. C’è la myse en abime e l’opera teatrale nel film: tu che siedi sulla poltrona rossa della sala guardi uno spettacolo teatrale che sta dentro il film che stai guardando, e dimentichi il film. E’ la caduta nel sogno. Si cade da un livello all’altro. Si sprofonda. Perché Wes Anderson ha questa qualità: essere leggero, danzare sulle cose, senza restare mai in superficie. Esporre il dramma delle piccole cose e delle piccole persone senza cadere nel patetismo.

Pare sia stata una festa persino girare il film: gli abitanti della città sono stati inseriti come comparse, illustratori e artigiani per allestire il set.

È fuori dal tempo, e Oltre ogni tempo, Wes.

Ogni cosa che tocca si trasforma in una brillante mela candita e lui non teme di mostrarti il verme marcio che la rode da dentro. Ma una mela candita resta bellissima anche da morta.

Wes è un mago, un incantatore che sa come incantarti e incatenarti alla sedia. Esci dal cinema e pensi di essere stata a teatro, vedi la munnizza e i ratti per le strade della tua città, il fetore dei sacchetti di organico all’angolo ti penetra le nari come la stupidità umana ti fora i timpani ma sorridi. Un sorriso ebete. E vedi comunque la dolcezza, la bellezza. Non esiste, ma ora la vedi.

Consigliato, se non si fosse capito.

Immagine di copertina (dal web): The French Dispach, regia di Wes Anderson

Drieu La Rochelle, un uomo spezzato

Negli anni ho imparato che l’affetto è forma mutevole, e inaffidabile, della relazione. Stima e ammirazione ci sono concessi da amici (e nemici) per le nostre qualità concrete, visibili, riconoscibili e riconosciute.

Ammirazione, recita la Treccani, è quel “sentimento di attrazione che si prova verso cose straordinariamente belle e pregevoli, o di stima, rispetto, simpatia per qualità singolari di una persona”.

C’è in quel “ad- mirari”, in quel “guardare con stupore”, un potenziale di ineluttabilità esploso in espressioni quali “cose straordinariamente belle e pregevoli” e “qualità singolari”.

Negli ultimi anni ho iniziato ad apprezzare il tributo di stima più del “ti voglio bene” gettato alla rinfusa: l’amore incostante, mutevole, falsificato dall’immagine simulacrale che, il più delle volte, ci si forgia dell’Altro. Spesso si ama con il ventre e senza testa, perdendo la testa, sbattendola sul muro, fracassandosi il cranio. Il più delle volte prendendo un abbaglio su quel che significa “amore”.

Dopo aver letto i suoi libri e la sua biografia mi sono chiesta come mi sarei comportata, e cosa avrei provato, se avessi conosciuto l’uomo che risponde al nome di Drieu La Rochelle.

Scrittore e saggista francese, nato a Parigi nel 1893, La Rochelle ha forgiato una prosa di impareggiabile valore.

Il suo “Diario” contiene alcune delle pagine stilisticamente più belle che la letteratura francese possa vantare e che sono però, spesso, intrise di risentimento verso l’Altro in quella forma deplorevole che abbiamo imparato a conoscere come antisemitismo. Odio verso l’Altro che era forse lo specchio dell’odio che l’uomo Drieu provava verso se stesso. La Rochelle aderì ai programmi reazionari di destra e fu un collaborazionista convinto durante l’occupazione tedesca della Francia; in seguito fu accusato di collaborazionismo e nel 1945 si tolse la vita.

Non so se io e Drieu – sapendo ciò che so di lui, essendo quella che sono – saremmo mai diventati amici ma quello che so – essendo quella che sono – è che non avrei rinunciato a leggere le sue opere.

So di inserire questa riflessione in un dibattito difficile e insolubile, quello sulla possibilità (o impossibilità) di distinguere l’uomo dall’artista. Per me è essenziale provare a fermarsi, e riflettere, su ciò che definiamo letteratura e ciò che letteratura non è.

Distinguere tra ciò che arte e letteratura possono in fatto di sconfinamento rispetto alla morale e ciò che, per esempio, il giornalismo (forma cronachistica non finzionale di scrittura), per esempio, è chiamato a fare.

Credo che la letteratura non dovrebbe ergersi a giudice, né dovrebbe sancire ciò che è giusto o sbagliato; la letteratura può prendersi la libertà di parlarci di violenti e assassini portandoci persino a simpatizzare con loro (come il cinema, le serie tv, e qualsiasia altra opera): può farlo perché non è “favola”, non è Esopo che deve ammaestrarci, e non è cronaca del reale nè giornalismo d’inchiesta nè denuncia sociale.

La letteratura è più simile ad una Maga dai dubbi costumi che opera in modi sorprendenti per aprire orizzonti inattesi; può persino risultare fuori luogo nei modi, fuori dagli schemi nei contenuti, e scagliare incantesimi contrari al buon senso o alla morale. La letteratura deve essere prima di tutto “buona letteratura”, cioè ben scritta: non infarcita di parole stantie o morali consolatorie, non veicolo di soluzioni, definizioni, precetti e insegnamenti.

Forse uno come La Rochelle si sarebbe accanito contro tutti i “deviati”, come li avrebbe definiti: lui ed io avremmo battagliato come esseri umani e, per via delle nostre convinzioni personali, ci saremmo persino odiati; eppure la mia opinione personale sarebbe stata, invariabilmente, che Memorie di Dirk Raspe” è uno dei libri migliori che abbia mai letto, oltre che il miglior romanzo sulla vita di Van Gogh che potrete mai leggere.

Subito dopo averlo scritto, Drieu si uccise. A uccidersi fu un uomo che odiava se stesso con ferocia pari, se non maggiore, a quella riservata agli altri.

Fuoco fatuo” è un altro romanzo capolavoro: uno scrittore fallito, un drogato, un dandy caduto in misera che passa un’intera giornata a camminare per le vie di una città desolata cercando una ragione per vivere, sapendo che, al fondo di quell’errabondaggio, non ne troverà. Il breve romanzo trasse ispirazione dal suicidio dello scrittore surrealista Jacques Rigaut, amico di Drieu. C’è molto di Drieu in Rigaut e c’è molto di Drieu anche nel Van Gogh romanzato del “Dirk Raspe”.

Drieu costruisce, con una prosa semplice che tocca vette altissime, personaggi densi e tesi fino a consumare la pelle delle parole, e spesso lo fa a partire da persone reali alle quali si sente affine per tentazione all’abisso e alla disperazione.

È un uomo rotto dentro, Drieu. Però – direte voi – è uno di quelli che, nella vita reale, non potremmo mai amare, non potremmo mai comprendere perché ha agito male, in un modo che giudichiamo moralmente deprecabile.

E sì, sono d’accordo: il fatto di uccidersi non santifica nessuno. Eppure quest’uomo, anche se ha agito male, è proprio come me, e anche come voi. Forse, quello che ci infastidisce è che questo intellettuale che si macchiò di antisemitismo ci sbatta in faccia il suo essere rotto dentro con quel gesto definitivo e plateale mentre noi, brave persone, continuiamo a vivere e lottare senza lamentarci. Questo è coraggio, direte: il nostro vivere e lottare, essere eroi del quotidiano. Eppure ci vuole coraggio, io credo, lucidità e non follia ma soprattutto coraggio, per togliersi la vita essendo quel qualcuno che ci ha già provato, quel qualcuno che sul suicidio ha riflettutto, rimuginato per tutta la vita. E ne ha scritto per tutta la vita.

“Ebbene, ora l’ho capito, la solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il mondo e per la vita; è il solo modo per gustare fino in fondo un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da noi, e le donne; ma è la china lungo la quale ci si perde” (Racconto segreto)

Drieu pensò di scrivere “Dirk Raspe” prima di tentare di uccidersi ma l’idea del suicidio dimorava da sempre nella sua mente. Come per altri scrittori della sua generazioneBreton e Malrauxl’Arte fu sempre un tema essenziale nelle sue opere: scrisse appassionatamente di Van Gogh, dalla cui vita fu sempre affascinato, e lo fece in totale solitudine, barricandosi in una casa sperduta nelle campagne di Parigi. Scrisse di getto, senza revisionare il testo. Un testo in cui ogni parola è pensata, pesata e posizionata con maestria.

“Gli specchi (…) sono fatti per coloro che vedono senza guardare e che, se guardano, vedono l’invisibile insieme al visibile; sono fatti per gli inquieti, i curiosi, gli affamati di domande e di conoscenza; sono fatti per gli artigiani della vista e del tatto, come me (…); per chi si stupisce, per i timidi, i modesti, gli umili; (…)per coloro che vivono intensamente in se stessi e dietro se stessi e che possono guardarsi da una profondità che non è più l’io vano, effimero e che sono in grado di guardarsi con un distacco e un’oggettività tali da confondere il loro viso con tutti i visi che lo specchio potrebbe riflettere, trasfigurati e fusi in un solo viso, quello dell’Uomo. E l’uomo considera il dio che risiede nell’Uomo. A quell’epoca, smisi di guardare così lungamente, così profondamente, non volevo arrivare al punto in cui l’Uomo e il dio e Dio si annullano e svaniscono nell’indecifrabile, nell’inconcepibile, nell’indicibile”.

E invece Drieu guardò, tocco quel punto, non torno indietro. Forse non era mai stato davvero a suo agio nel mondo.

La schiena china sul “Diario”, annotava riguardo al “Dirk Raspe”:

“scrivo da quattro a otto pagine consecutive senza sforzi, senza mai rileggere quel che precede. Scrivo tutto il romanzo senza preoccuparmi del lavoro già fatto:in tal modo posso esprimere il brancolamento dell’esistenza”.

Alternava momenti di euforia e lavoro indefesso ad altri di invincibile scoramento

“Ne ho abbastanza di quel nuovo romanzo (…), abbastanza del mondo. Non riesco più a interessarmi veramente alle ‘cose’ (…) Non ho fatto alcun progresso nella concentrazione. (…) E poi io non sono un uomo di concentrazione.

Due mesi dopo, nel marzo del ‘45, si uccise. Il primo tentativo di suicidio risaliva all’agosto del ’44. In quel tempo di mezzo Drieu scrisse, lasciandoci in eredità qualcosa di prezioso, e unico, nel panorama letterario.

Se preferirei che avesse avuto idee diverse da quelle che aveva? Che fosse stato un uomo diverso?

”La gente si contraddice (…); ti scongiura di essere te stesso e subito ti rimprovera di esserlo troppo”.

Non oserei chiedere nulla di simile a un essere umano, nè saprei rimproverare Drieu per ciò che non fu in grado di essere.

Cosa sappiamo veramente dei tormenti di quest’uomo che amava camminare molto, un camminatore seriale, e restare solo. Quest’uomo timido con le donne e ossessionato dal pensiero dei corpi, che si riteneva brutto e che perciò stesso scelse di diventare brutto, di abbrutirsi per giustificare il proprio ritiro dalle scene del mondo. Quest’uomo che correva dietro alle puttane e non riusciva ad avere relazioni “normali” (qualunque cosa significhi) con donne comuni e che prima di morire dialogava quasi solo con i poeti morti – Coleridge, Keats, Shelley, Holderlin, Baudelaire?

Chi avrebbe potuto salvarlo da se stesso, quest’uomo imbevuto di idee reazionarie, letteratura, poesia, immagini distorte di sè stesso e del reale, quest’uomo che – come scrive nel suo diario due giorni prima di ucciddersi – era ossessionato dall’idea di completare ciò che aveva iniziato?

Ammazzarsi è esercitare su di sé il diritto di vita e morte

e Drieu era ossessionato dall’idea di autodeterminarsi e affermarsi come volontà e dio pantocratore.

Se un uomo è tale nella misura in cui è fallibile, nella misura in cui è dannato, caduto, allora anche quest’uomo, che non è degno del nostro amore, è un uomo. Certamente è uno scrittore straordinario.

Penso che se lo avessi conosciuto, Drieu, sarei stata sedotta dal suo genio, avrei amato la sua mente, la sua scrittura, il suo modo di forgiare mondi impossibili con le parole, di far vibrare in modo straordinario le cose ordinarie; forse mi sarei detta che amavo l’uomo e sarebbe stato falso, sarebbe stato un fraintendimento, un abbaglio. Ma lo avrei capito in seguito perché è così che accade con l’amore.

Perciò al mutevole affetto per gli esseri umani preferisco la stima durevole, l’ammirazione.

Grazie ai libri di La Rochelle la mia mente si apre ad orizzonti inattesi, comprendo e abbraccio l’umano tutto nella sua imperfezione.

Ci sono esseri umani che sono abbaglio e fraintendimento persino per se stessi e quel bagliore li seduce, sono sedotti da se stessi al punto di morirne.

Il loro bagliore è puro ed eterno solo nelle opere. Forse non sono stati buoni e puri – né con gli altri nè, qualche volta, con se stessi – ma hanno fatto qualcosa di buono, ci hanno lasciato qualcosa che ha valore e che possiamo giudicare tale perché amplia e arricchisce il mondo in cui viviamo.

Diamo atto all’uomo fallibile, foss’anche il più fallibile tra gli uomini, per esser stato impeccabile nell’arte che scelse – o dalla quale fu scelto – e nella quale espresse la parte migliore, e buona, di sé.

Dobbiamo riconoscere che ha pagato un prezzo altissimo.

“Le memorie di Dirk Raspe” è un’opera incompiuta, scritta a ridosso dell’abisso: la tipica opera giudicata “imperfetta” dal mercato editoriale. Eppure, come accade non di rado, questo “non finito” è la cosa più perfetta, più compiuta che La Rochelle abbia scritto. Ed è una fortuna che sia rimasta, incompiuta e perfetta, nonostante l’uomo.

Foto di copertina

A Mavara

È giunto il momento di non tacere. E’ già la terza volta che accade.

Tre, numero magico, mistico, profetico.

Tre, cantiche della Commedia.

Tre, Giona nella balena.

Tre, le Madonne. Persino Aldo, Giovanni e Giacomo, per dire. Tre.

Per tre volte è accaduto che qualcuno riemergesse dalle nebbie del mio passato, dopo dieci anni di silenzi e strade divise da chissà quali malintesi e incomprensioni, solo per dirmi cose come

“Avevi ragione.”

“Avevi capito già allora.”

“Me lo avevi detto.”

“È come se avessi visto prima quello che sarebbe accaduto.”

Ora, io non sono una da “te lo avevo detto” ma, nonostante la veneranda età, continuo a lasciarmi stupire dalle cose. Diciamo pure che le noto. Diciamo pure che le vedo meglio di altri, che metto insieme i pezzi. Non posso fare a meno di sorprendermi se qualcuno, mosso da non so quale empito, dopo anni di silenzi e distanze, mi cerca solo per dirmi queste parole.

Pur avendo una certa dimistichezza con morti e fantasmi, pur essendo avida lettrice di Poe, Shirley, Hoffman e compagnia cantante, non ho ancora capito come tutto ciò possa incidere sulla mia vita (perché su quella degli altri, a quanto pare, ha un peso). Sono certa però che inciderà sul Cosmo, Universo o comunque lo vogliate chiamare. Non vi spaventate, nulla di grave: non ci sono morti o fantasmi in questa storia (almeno credo).

In questo periodo, a causa dei singolari eventi dei quali vi narro, ripenso molto a mia Nonna, donna perduta spezzata sconfitta, e scrivo molto di Lei. Lei che in famiglia, e non solo, qualcuno chiamava “A mavara” (strega, fattucchiera, in siciliano). Rimasta nel limbo, impigliata nella ragnatela che Lei stessa ha tessuto per anni, morta in vita e che pure forse ancora vive. Su di Lei, due anni fa, in un momento di crollo shakerato con adrenalina, ho scritto un monologo potentissimo che tengo chiuso nel baule col catenaccio. Ho paura di rileggermi.

Oggi mi chiedo: chissà se lo era davvero, una strega? Chissà se potrebbe aiutarmi. Le scriverò una lettera, è così che si fa con i vivi che non puoi vedere o con i morti che si fanno sentire. Non so se sono una strega però non mi dispiace sapere che dove altri si fermano io vado oltre. Diciamo che mi piacerebbe saperne di più, su questa cosa, avere altri segni. La quarta e la quinta volta, magari arriviamo fino alla nona. Facciamo nove, numero perfetto.

Intanto, mentre i vivi ricompaiono come ombre dal passato per sussurrarmi all’orecchio “avevi ragione”, ripenso a come ho sempre accettato il rifiuto, l’incomprensione, persino lo sberleffo di certe persone. È bello, oggi, vedere tutto questo sotto una luce diversa: chissà, forse anche queste persone, semplicemente, non potevano vedere.

Sono qui comunque, aspetto.

Altri dieci anni e vediamo che succede.

In foto, nonna Angela, A Mavara.