«Sorrideva di imbarazzo, mio padre, mentre nel sogno di questa notte mi guardava negli occhi. C’era una porta, di fianco a noi, e quand’egli mi chiese se sapevo cosa ci fosse dietro io risposi che non volevo entrare.
“Non ti ho chiesto se vuoi entrare, ma se sai cosa c’è dietro”.
“Meglio che non lo sappia mai papà, se c’è qualcosa d’ignoto sarà orrendo, se c’è qualcosa di familiare sarà triste”»
“Tu, sanguinosa infanzia”, raccolta di racconti brevi, incarna la compulsione del Michele Mari lettore onnivoro e la sua smania catalogatrice. Non ci prova nemmeno a nascondersi, la sua presenza è onnipervasiva. Ogni racconto rappresenta il corpo a corpo dello scrittore con i libri e gli oggetti amati nell’età che forma il desiderio. L’autore si muove danzando tra i marosi e, come nelle copertine della collana Urania, mescola violenza e incanto: amante del lessico aulico, divoratore di colossi della letteratura e fumetti, passa dalla “incruenta lusinga di un decorativo grafismo che radendo a volo la crosta terrestre tutta la coprisse di sempremai nuove curve” a Tintin, Cocco Bill, L’uomo mascherato, Mandrake Nembo Kid, Linus e il primo Paperepopea.
L’imperativo è chiaro: restare fedeli al bambino.
Il mantra è esplicitato a pagina quattordici:
“E ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte”, che sia una macchinina di metallo Mercury, un Winchester da 50 cm di tuo padre, un fortino di legno, un mazzo di figurine di calciatori, gli album di Cocco Bill, i pezzi di un puzzle, le copertine di Urania (collana della quale elenca tutti i titoli), le canzoni degli alpini con le loro “smusicate parole”. Oggetti disseminati qua e là muovono l’azione e stimolano il ricordo. Il mito dell’infanzia è tutto e ogni cosa diventa mito, se guardata con l’agio della distanza.
Nel racconto “L’orrore dei giardinetti” mitologici sono appunti i “giardinetti” in cui si consumano gli svaghi pomeridiani dei bambini: luoghi che si trasformano in “inospiti lande steppose, e pur si millantano in un vezzeggiativo che al buon ragionare trasmette un’idea di abbindolamento, di chi sa mai quale insidia”. E’ lì che vagano le tremende creature, le Antiche Madri, “chtonie come Matres Matutae”, intente a lavorare a maglia mentre si danno al loro “scalcagnato chiacchericcio”.
L’impalcatura si regge sul contrasto: se la materia trattata è, per così dire, umile, semplice, quotidiana, il lessico è alto, ricercato, specialistico; il dispositivo onirico, che trasfigura ogni oggetto, restituisce un’aura epica ai gesti più comuni. Da un punto di vista stilistico ho apprezzato questo libro anche, e soprattutto, perché tradisce ogni regola raccomandata e raccomandabile sull’uso degli aggettivi: “adoperare con cautela”, dice la regola. Mari ne affastella uno dietro l’altro, si diverte con gli elenchi e può concedersi questo lusso perché ogni parola giganteggia (quasi) come un personaggio. Quando leggo ho l’abitudine di appuntare sulle pagine bianche alla fine del libro le parole che non fanno parte del mio vocabolario attivo o delle quali non conosco le sfumature. In questo caso ne ho segnate cinquantadue, alcune delle quali specifiche del lessico marinaresco.
Un tripudio di balismi, putrelle, velabri, medulla, bompressi e bastinaggi, osteriggi e sule, per non parlare di pagina ventuno con i mostri di ogni genere e forma stampati sulle copertine di Urania (potete saltare l’elenco ma consiglio la sbronza da lettura rapida): loricati e squammosi, catafratti, pelosi, bavosi, mucosi, ungulati, fiammanti, bituminosi, lobati, crestati, gassosi, colanti, informi e deformi, araldici, immani, abominevoli, solinghi, aggruppati, prognati, deliranti, insinuanti, chtoni, zoomorfi, cachinnomorfi, metafisici, ulcerati, ... e qui mi fermo ma ne restano appena altri sedici.
Spesso l’autore si diverte a ripetere lo stesso identico concetto usando parole differenti, lo vediamo gongolare sulla pagina e invadere la narrazione con la propria presenza. È il marchio inestinguibile del professore universitario o della persona colta che non teme di sfoggiare un vocabolario ampio e farci fare un giro sulle montagne russe delle parole. Capita pure, qualche volta, che le scelte lessicali finiscano per essere un elemento distraente rispetto alla parte drammatica e troneggiare rispetto alla storia ma glielo perdoniamo. Se ti perdi nella vertigine e nel suono delle parole puoi sempre ritrovarti aggrappandoti a un’immagine evocata capace di dialogare con immagini-ricordo della tua sanguinosa infanzia.
In questo senso, gli oggetti-mito racchiusi nel libro identificano una sorta di lettore ideale.
Leggo il libro di Mari in un periodo in cui frequento il Porto della mia città e mi ritrovo spesso a chiacchierare con i pescatori, osservare le loro mani, guardarli mentre attendono di salpare. In Moby Dick e Gordon Pym ritrovo i loro volti bruciati dal sole e le loro dita callose. Li osservo, immagino di imbarcarmi su un peschereccio, vivere una vita raminga. Torno a Poe, Salgari, Melville e compagnia cantante, nella mia mente si rincorrono le loro voci.
Quello che mi ha convinta meno del libro? I finali di alcuni racconti. A Mari perdoniamo anche questo. Sia perché il finale dell’intero libro è efficace, oltre che intriso di estrema dolcezza, sia perché il valore di questo libro non è tanto nella trama quanto nella scelta delle parole, delle immagini-mito e nelle riflessioni che l’autore costruisce intorno a elementi minimi come una macchinina, il pezzo di un puzzle, un fortino di legno.
Una domanda per gli ossessionati dal mestiere delle parole muove l’azione del racconto “La freccia nera”. La domanda: come cambia un libro, lo stesso libro, se cambia la traduzione? Si tratta davvero dello stesso libro? A porsi il quesito è il protagonista bambino, sommerso da un misto di senso di colpa e vergogna per aver letto un’edizione de “La freccia nera” prima che il padre gliene regalasse un’altra. Il regalo è simbolo del loro legame, perciò gli dispiace di aver già letto il romanzo ma subito dopo pensa che no, in fondo non lo ha letto davvero. Parole diverse, traduzioni diverse, libri diversi, conclude il protagonista: il libro che ha letto non può in alcun modo essere lo stesso regalatogli dal padre.
“…bastava che anche una sola parola fosse diversa da una traduzione all’altra perché l’intima sostanza dei due libri non fosse più sovrapponibile: allora io avrei potuto rileggere la Freccia nera come fosse una nuova storia, e la stortura cosmica che tanto mi stava facendo soffrire sarebbe stata raddrizzata.”
“Tu, sanguinosa infanzia” è un libro di parole che riflettono sulle parole.
E allora decido di rubarne tre dal testo per dimostrarlo a me stessa.
Scelgo la parola “parola” – celebrata in un frammento poetico de “La pazza della porta accanto” di Alda Merini – e la sua etimologia latina “parabola” “similitudine” (in greco παραβολή, a sua volta derivato da παραβάλλω ossia confrontare, mettere a lato). La parola è sempre associata all’oggetto o all’azione cui si lega ma di per sè è solo suono e segno. Quando si fa una selezione così precisa delle parole, come quella che Mari opera, il testo penetra in chi legge su più livelli: emotivo, carnale, evocativo, simbolico, sonoro, intellettuale. Non si esce illesi dal peso specifico di ogni termine: l’intero libro è basato su questa scelta della parola esatta a tal punto che l’autore la pone come tema di un intero racconto, il già citato “La Freccia nera”.
La parola crea la realtà nella quale chi legge viene accompagnato o scaraventato.
Scegliendo parole desuete o attinte a un lessico settoriale Mari ottiene già un effetto straniante in termini di spazio e tempo. L’obiettivo è catapultare il lettore in un tempo perduto, quello bambino. L’effetto di straniamento e la tensione onirica sono la cifra della narrazione.
Un termine come”batrace” (al posto del comunissimo “rana”) ci parla immediatamente di un mondo diverso dal nostro, meno “quotidiano”, anche quando sappiamo (e ci viene continuamente ricordato) che le storie che leggiamo hanno come protagonisti bambini che giocano al parchetto e altre cose amene.
“C’erano una volta otto scrittori che erano lo stesso scrittore”
Così comincia “Otto scrittori”, il racconto dedicato all’agone tra i grandi della letteratura del mare. Qui il tono è fiabesco. Otto voci sono una sola Voce. Cosa dice questa Voce? Lo scopriamo leggendo. Tra gli otto colossi si innesca una gara. Nella penultima sfida Conrad e Stevenson si incontrano a metà strada, nel Pacifico, e mettono i loro libri sul piatto della bilancia. Vince Stevenson con un solo libro (capito quale?) che pesa più degli otto di Conrad. Il punto di vista dell’autore è chiaro: un solo libro di Stevenson ne vale otto di Conrad. Il narratore fa da mediatore. L’ultima sfida, la più epica, vede contrapporsi Mellville e Stevenson. L’esito è schiacciante. Secunda Dass, il messo di Stevenson, così parla di Melville al narratore (il quale si trova su un monte in esilio per non assistere alla lotta finale tra i due giganti della letteratura).
“…questo noi tutti e uomini e pesci ed uccelli abbiamo capito, che un libro come quello nessun uomo può averlo scritto perché quel libro è l’Apocalisse e la sua parola è antica come il boato della Profezia e il suo respiro è il rantolo degli Angeli caduti, e di fronte alla sua immanità tutto è come scherzo di fanciulla e di fronte alla sua smisuratezza tutto è come madrigale”.
Così chiosa la voce narrante definendo il colossale romanzo sulle balene:
“…quel libro in cui i simboli esercitano sul lettore quasi una violenza fisica; quel libro che sembra aggirarsi lentamente intorno al suo tema quando invece è il tema che gira intorno a noi in spire sempre più vorticose; quel libro impuro che travolgendo le regole è nel contempo romanzo, trattato, poema, diario di bordo, tragedia, sacra rappresentazione, ballata; quel libro che interroga incessantemente la Morte incalzandola da presso come la lancia dei ramponieri incalza l’immensa bestia; quel libro dello squarciamento e del colamento, dell’urlo e della demenza, del tormento e della dannazione, no, quel libro non poteva essere stato scritto da un uomo, e per questo io pronunciai “Herman Melville” come avessi detto Aleph o Adonai”.
Eccola, la seconda parola sulla quale mi voglio soffermare. Aleph, dall’ebrarico «toro», è il nome della prima lettera dell’alfabeto ebraico indicata nella scrittura con א. In matematica, indica la potenza di un insieme. Un’altra parola che parla di parole, simbolo di un insieme di segni.
Alla fine del racconto tutti i partecipanti alla sfida – Defoe, London, Conrad, Poe, Salgari, Verne, Melville, Stevenson – si imbarcano sul Pequod. Un’immagine difficile da dimenticare.
Una parola che, come molte altre, ho adorato per il suo potere onomatopeico (onomatopeica è anche la sua orgine) è “sbroffare”, variante di sbruffare, che sta per “spruzzare un liquido dalla bocca o dal naso” ma anche, in modo figurato, “raccontare fatti esagerati e poco credibili, vantarsi, fare lo sbruffone”. Nel gergo dei muratori, sbroffare significa lanciare con la cazzuola la malta su una parete per poi stenderla successivamente. La parola che si fa corpo indica l’azione del “gettare fuori” in vari modi e c’è il richiamo al gettare fuori tipico del raccontare, del parlare.
Nel racconto “Certi verdini” tutto parte da un’azione-ossessione: fare e disfare un puzzle, gesto che riconduce alla metafora del gioco e della vita. La nobilitazione di un’azione semplice simbolo del senso di discontinuità dell’essere. “Puzzle” è la parola-suono inglese per “enigma”, “rompicapo”. Come non pensare a Perec, “La vita istruzioni per l’uso”?
«Solo i pezzi ricomposti assumeranno un carattere leggibile, acquisteranno un senso: isolato, il pezzo di un puzzle non significa niente; è semplicemente una domanda impossibile, sfida opaca; ma se appena riesci […] a connetterlo con uno dei pezzi vicini […] i due pezzi miracolosamente riuniti sono diventati ormai uno. La soluzione del puzzle consisterà solo nel tentare via via tutte le combinazioni plausibili. L’arte del puzzle inizia con i puzzle di legno tagliati a mano quando colui che li fabbrica comincia a porsi tutti i problemi che il giocatore dovrà risolvere, quando, invece di lasciare che il caso imbrogli le piste, vuole sostiituirgli l’astuzia, la trappola, l’illusione […] malgrado le apparenze, non si tratta di un gioco soliatrio: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro»
Madre e figlio protagonisti di “Certi verdini” costruiscono il puzzle solo per distuggerlo. Portano alle estreme conseguenze l’ossessione mescolando i pezzi del puzzle e lavorandoli al buio. Per svagarsi, si sfidano a indovinare di quale puzzle si tratti a partire da un singolo pezzo.
“La solitudine… La solitudine del prigioniero, la solitudine del demiurgo. Seguendo le orme materne imparai la frammentarietà del mondo e la discontinuità dell’essere, imparai ingenuamente le vie della gnosi, imparai che non si dà sapere che non riconduca il molteplice all’uno e non dia forma all’informe; (…) che sconnesso dalla sua sede ogni ente decade”.
Anche in questo gioco ossessivo di madre e figlio veniamo ricondotti all’essenza della narrazione:
“Non c’è molt’altro, nella vita.
No, è quasi tutto laggiù”
Laggiù, nella sanguinosa infanzia e in tutti i ricordi che essa, come un fiume in piena, fa aggallare.
Così si chiude il libro, nel giardino di un ospizio, con un botta e risposta nostalgico e ironico tra due vecchietti in una sera d’estate del 2030.
Il libro del quale (non) ho fatto la recensione è Michele Mari, “Tu, sanguinosa infanzia”, Einaudi