Negli anni ho imparato che l’affetto è forma mutevole, e inaffidabile, della relazione. Stima e ammirazione ci sono concessi da amici (e nemici) per le nostre qualità concrete, visibili, riconoscibili e riconosciute.
Ammirazione, recita la Treccani, è quel “sentimento di attrazione che si prova verso cose straordinariamente belle e pregevoli, o di stima, rispetto, simpatia per qualità singolari di una persona”.
C’è in quel “ad- mirari”, in quel “guardare con stupore”, un potenziale di ineluttabilità esploso in espressioni quali “cose straordinariamente belle e pregevoli” e “qualità singolari”.
Negli ultimi anni ho iniziato ad apprezzare il tributo di stima più del “ti voglio bene” gettato alla rinfusa: l’amore incostante, mutevole, falsificato dall’immagine simulacrale che, il più delle volte, ci si forgia dell’Altro. Spesso si ama con il ventre e senza testa, perdendo la testa, sbattendola sul muro, fracassandosi il cranio. Il più delle volte prendendo un abbaglio su quel che significa “amore”.
Dopo aver letto i suoi libri e la sua biografia mi sono chiesta come mi sarei comportata, e cosa avrei provato, se avessi conosciuto l’uomo che risponde al nome di Drieu La Rochelle.
Scrittore e saggista francese, nato a Parigi nel 1893, La Rochelle ha forgiato una prosa di impareggiabile valore.
Il suo “Diario” contiene alcune delle pagine stilisticamente più belle che la letteratura francese possa vantare e che sono però, spesso, intrise di risentimento verso l’Altro in quella forma deplorevole che abbiamo imparato a conoscere come antisemitismo. Odio verso l’Altro che era forse lo specchio dell’odio che l’uomo Drieu provava verso se stesso. La Rochelle aderì ai programmi reazionari di destra e fu un collaborazionista convinto durante l’occupazione tedesca della Francia; in seguito fu accusato di collaborazionismo e nel 1945 si tolse la vita.
Non so se io e Drieu – sapendo ciò che so di lui, essendo quella che sono – saremmo mai diventati amici ma quello che so – essendo quella che sono – è che non avrei rinunciato a leggere le sue opere.
So di inserire questa riflessione in un dibattito difficile e insolubile, quello sulla possibilità (o impossibilità) di distinguere l’uomo dall’artista. Per me è essenziale provare a fermarsi, e riflettere, su ciò che definiamo letteratura e ciò che letteratura non è.
Distinguere tra ciò che arte e letteratura possono in fatto di sconfinamento rispetto alla morale e ciò che, per esempio, il giornalismo (forma cronachistica non finzionale di scrittura), per esempio, è chiamato a fare.
Credo che la letteratura non dovrebbe ergersi a giudice, né dovrebbe sancire ciò che è giusto o sbagliato; la letteratura può prendersi la libertà di parlarci di violenti e assassini portandoci persino a simpatizzare con loro (come il cinema, le serie tv, e qualsiasia altra opera): può farlo perché non è “favola”, non è Esopo che deve ammaestrarci, e non è cronaca del reale nè giornalismo d’inchiesta nè denuncia sociale.
La letteratura è più simile ad una Maga dai dubbi costumi che opera in modi sorprendenti per aprire orizzonti inattesi; può persino risultare fuori luogo nei modi, fuori dagli schemi nei contenuti, e scagliare incantesimi contrari al buon senso o alla morale. La letteratura deve essere prima di tutto “buona letteratura”, cioè ben scritta: non infarcita di parole stantie o morali consolatorie, non veicolo di soluzioni, definizioni, precetti e insegnamenti.
Forse uno come La Rochelle si sarebbe accanito contro tutti i “deviati”, come li avrebbe definiti: lui ed io avremmo battagliato come esseri umani e, per via delle nostre convinzioni personali, ci saremmo persino odiati; eppure la mia opinione personale sarebbe stata, invariabilmente, che “Memorie di Dirk Raspe” è uno dei libri migliori che abbia mai letto, oltre che il miglior romanzo sulla vita di Van Gogh che potrete mai leggere.
Subito dopo averlo scritto, Drieu si uccise. A uccidersi fu un uomo che odiava se stesso con ferocia pari, se non maggiore, a quella riservata agli altri.
“Fuoco fatuo” è un altro romanzo capolavoro: uno scrittore fallito, un drogato, un dandy caduto in misera che passa un’intera giornata a camminare per le vie di una città desolata cercando una ragione per vivere, sapendo che, al fondo di quell’errabondaggio, non ne troverà. Il breve romanzo trasse ispirazione dal suicidio dello scrittore surrealista Jacques Rigaut, amico di Drieu. C’è molto di Drieu in Rigaut e c’è molto di Drieu anche nel Van Gogh romanzato del “Dirk Raspe”.
Drieu costruisce, con una prosa semplice che tocca vette altissime, personaggi densi e tesi fino a consumare la pelle delle parole, e spesso lo fa a partire da persone reali alle quali si sente affine per tentazione all’abisso e alla disperazione.
È un uomo rotto dentro, Drieu. Però – direte voi – è uno di quelli che, nella vita reale, non potremmo mai amare, non potremmo mai comprendere perché ha agito male, in un modo che giudichiamo moralmente deprecabile.
E sì, sono d’accordo: il fatto di uccidersi non santifica nessuno. Eppure quest’uomo, anche se ha agito male, è proprio come me, e anche come voi. Forse, quello che ci infastidisce è che questo intellettuale che si macchiò di antisemitismo ci sbatta in faccia il suo essere rotto dentro con quel gesto definitivo e plateale mentre noi, brave persone, continuiamo a vivere e lottare senza lamentarci. Questo è coraggio, direte: il nostro vivere e lottare, essere eroi del quotidiano. Eppure ci vuole coraggio, io credo, lucidità e non follia ma soprattutto coraggio, per togliersi la vita essendo quel qualcuno che ci ha già provato, quel qualcuno che sul suicidio ha riflettutto, rimuginato per tutta la vita. E ne ha scritto per tutta la vita.
“Ebbene, ora l’ho capito, la solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il mondo e per la vita; è il solo modo per gustare fino in fondo un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da noi, e le donne; ma è la china lungo la quale ci si perde” (Racconto segreto)
Drieu pensò di scrivere “Dirk Raspe” prima di tentare di uccidersi ma l’idea del suicidio dimorava da sempre nella sua mente. Come per altri scrittori della sua generazione – Breton e Malraux – l’Arte fu sempre un tema essenziale nelle sue opere: scrisse appassionatamente di Van Gogh, dalla cui vita fu sempre affascinato, e lo fece in totale solitudine, barricandosi in una casa sperduta nelle campagne di Parigi. Scrisse di getto, senza revisionare il testo. Un testo in cui ogni parola è pensata, pesata e posizionata con maestria.
“Gli specchi (…) sono fatti per coloro che vedono senza guardare e che, se guardano, vedono l’invisibile insieme al visibile; sono fatti per gli inquieti, i curiosi, gli affamati di domande e di conoscenza; sono fatti per gli artigiani della vista e del tatto, come me (…); per chi si stupisce, per i timidi, i modesti, gli umili; (…)per coloro che vivono intensamente in se stessi e dietro se stessi e che possono guardarsi da una profondità che non è più l’io vano, effimero e che sono in grado di guardarsi con un distacco e un’oggettività tali da confondere il loro viso con tutti i visi che lo specchio potrebbe riflettere, trasfigurati e fusi in un solo viso, quello dell’Uomo. E l’uomo considera il dio che risiede nell’Uomo. A quell’epoca, smisi di guardare così lungamente, così profondamente, non volevo arrivare al punto in cui l’Uomo e il dio e Dio si annullano e svaniscono nell’indecifrabile, nell’inconcepibile, nell’indicibile”.
E invece Drieu guardò, tocco quel punto, non torno indietro. Forse non era mai stato davvero a suo agio nel mondo.
La schiena china sul “Diario”, annotava riguardo al “Dirk Raspe”:
“scrivo da quattro a otto pagine consecutive senza sforzi, senza mai rileggere quel che precede. Scrivo tutto il romanzo senza preoccuparmi del lavoro già fatto:in tal modo posso esprimere il brancolamento dell’esistenza”.
Alternava momenti di euforia e lavoro indefesso ad altri di invincibile scoramento
“Ne ho abbastanza di quel nuovo romanzo (…), abbastanza del mondo. Non riesco più a interessarmi veramente alle ‘cose’ (…) Non ho fatto alcun progresso nella concentrazione. (…) E poi io non sono un uomo di concentrazione.”
Due mesi dopo, nel marzo del ‘45, si uccise. Il primo tentativo di suicidio risaliva all’agosto del ’44. In quel tempo di mezzo Drieu scrisse, lasciandoci in eredità qualcosa di prezioso, e unico, nel panorama letterario.
Se preferirei che avesse avuto idee diverse da quelle che aveva? Che fosse stato un uomo diverso?
”La gente si contraddice (…); ti scongiura di essere te stesso e subito ti rimprovera di esserlo troppo”.
Non oserei chiedere nulla di simile a un essere umano, nè saprei rimproverare Drieu per ciò che non fu in grado di essere.
Cosa sappiamo veramente dei tormenti di quest’uomo che amava camminare molto, un camminatore seriale, e restare solo. Quest’uomo timido con le donne e ossessionato dal pensiero dei corpi, che si riteneva brutto e che perciò stesso scelse di diventare brutto, di abbrutirsi per giustificare il proprio ritiro dalle scene del mondo. Quest’uomo che correva dietro alle puttane e non riusciva ad avere relazioni “normali” (qualunque cosa significhi) con donne comuni e che prima di morire dialogava quasi solo con i poeti morti – Coleridge, Keats, Shelley, Holderlin, Baudelaire?
Chi avrebbe potuto salvarlo da se stesso, quest’uomo imbevuto di idee reazionarie, letteratura, poesia, immagini distorte di sè stesso e del reale, quest’uomo che – come scrive nel suo diario due giorni prima di ucciddersi – era ossessionato dall’idea di completare ciò che aveva iniziato?
“Ammazzarsi è esercitare su di sé il diritto di vita e morte”
e Drieu era ossessionato dall’idea di autodeterminarsi e affermarsi come volontà e dio pantocratore.
Se un uomo è tale nella misura in cui è fallibile, nella misura in cui è dannato, caduto, allora anche quest’uomo, che non è degno del nostro amore, è un uomo. Certamente è uno scrittore straordinario.
Penso che se lo avessi conosciuto, Drieu, sarei stata sedotta dal suo genio, avrei amato la sua mente, la sua scrittura, il suo modo di forgiare mondi impossibili con le parole, di far vibrare in modo straordinario le cose ordinarie; forse mi sarei detta che amavo l’uomo e sarebbe stato falso, sarebbe stato un fraintendimento, un abbaglio. Ma lo avrei capito in seguito perché è così che accade con l’amore.
Perciò al mutevole affetto per gli esseri umani preferisco la stima durevole, l’ammirazione.
Grazie ai libri di La Rochelle la mia mente si apre ad orizzonti inattesi, comprendo e abbraccio l’umano tutto nella sua imperfezione.
Ci sono esseri umani che sono abbaglio e fraintendimento persino per se stessi e quel bagliore li seduce, sono sedotti da se stessi al punto di morirne.
Il loro bagliore è puro ed eterno solo nelle opere. Forse non sono stati buoni e puri – né con gli altri nè, qualche volta, con se stessi – ma hanno fatto qualcosa di buono, ci hanno lasciato qualcosa che ha valore e che possiamo giudicare tale perché amplia e arricchisce il mondo in cui viviamo.
Diamo atto all’uomo fallibile, foss’anche il più fallibile tra gli uomini, per esser stato impeccabile nell’arte che scelse – o dalla quale fu scelto – e nella quale espresse la parte migliore, e buona, di sé.
Dobbiamo riconoscere che ha pagato un prezzo altissimo.
“Le memorie di Dirk Raspe” è un’opera incompiuta, scritta a ridosso dell’abisso: la tipica opera giudicata “imperfetta” dal mercato editoriale. Eppure, come accade non di rado, questo “non finito” è la cosa più perfetta, più compiuta che La Rochelle abbia scritto. Ed è una fortuna che sia rimasta, incompiuta e perfetta, nonostante l’uomo.
Foto di copertina