Leggi Parte Prima
Far vedere, come?
L’attore è l’essere umano più disponibile all’errore. Di più, è l’essere umano che
ha fatto dell’errore la propria arte
e più di tutti ha compreso il valore del fallimento. Ci si abitua a perdere, quando si fa questo mestiere, e a riconciliarsi con la sconfitta. Sbagliare è il solo modo per lavorare e creare. Questa, è una delle molte ragioni per cui amo il teatro. Nella vita, in linea di massima, se si sbaglia – sul lavoro, in famiglia, nelle relazioni sociali – si incorre in una “punizione” di qualche tipo; ce lo insegnano fin da bambini, come si fa a fare qualcosa “nel modo giusto”: è il mantra che ci ripetono. Nella vita, l’errore (anche quando fa crescere) è generalmente etichettato come un “problema”; ma
nel teatro, l’errore è una possibilità, sempre.
Nella vita, se sbagliamo perdiamo qualcosa (la possibilità di far carriera, la stima o l’affetto delle persone,…);
nel teatro, se sbagliamo guadagniamo qualcosa.
Di più: un attore può stare in scena come personaggio solo se porta dentro di sé stimoli che gli danno continuamente vigore; e ciò che dà vigore in scena sono proprio
i problemi, gli ostacoli, le difficoltà.
Sono convinta che ci soffermassimo su questo concetto, capiremmo che esso ci dice molto anche sulla vita, in realtà: viviamo ora un momento storico peculiare, certamente drammatico; a ben pensarci, è proprio quando le cose non vanno per il verso giusto che troviamo nuove strade e nuovi modi di esistere e affrontare la vita; la difficoltà è uno sprone al cambiamento, al rinnovamento, alla possibilità di non adagiarci sulle abitudini consolidate. In scena, è necessario: l’ostacolo in una storia non è una scelta ma un passaggio obbligato per farla evolvere, farla andare avanti.
Far vedere, dove?
Stanislavskij parla dell’importanza delle circostanze, la prima delle quali è il luogo. Un attore deve chiedersi: “dove mi trovo?” Se le circostanze cui attingo sono reali, sarà mio compito studiarle. Ad esempio: sono nella mia stanza, seduta su una sedia; prima di agire sulla/con la sedia, dovrò descriverla accuratamente, quindi conoscerla: in poche parole, definire esattamente com’è fatta e come posso relazionarmi ad essa, in base a com’è fatta (è di legno; è marrone; è molto dura; è comoda oppure no? Come posso sedermi? Posso sedermi a gambe incrociate? Posso salirci in piedi?). Se le circostanze di luogo sono fittizie, allora devo essere precisa nel creare nella mia mente le immagini che mi occorrono; per farlo, devo conoscere ciò di cui parlo. Ad esempio: sono in un parco, e recito davanti ai passanti; in quale città mi trovo? In quale parco? In che periodo dell’anno? Quali edifici vedo intorno? Chi c’è accanto a me? Com’è fatto il lago? Che tipo di alberi ci sono? Tutto ciò non potrà essere riportato fisicamente sulla scena, ma io dovrò fare in modo che lo sia.
Comunicare le immagini significa far sì che l’altro veda ciò che io vedo.
Il senso del Teatro è in questo far vedere.
Naturalmente, il primo oggetto dello sguardo è lo stesso corpo dell’attore. Immaginiamo, ad esempio, che in scena ci sia solo lui, senza costumi, né oggetti, né scenografie: un buon attore dovrebbe riuscire a far vedere le immagini che ha creato nella sua mente senza bisogno di sostegni o orpelli. Un attore deve sapersi misurare nella scelta degli elementi da portare sulla scena: solo quelli necessari e giustificabili; in ogni caso, se presenti, devono essere motivati.
Far vedere, perché?
L’attore, ricapitolando, mostra i contenuti della sua mente, cioè le immagini, che nascono da idee (sul mondo, sulla vita). Queste idee le ricava dalla vita, quella concreta, sua e di altri esseri umani, ma può attingerle anche dalla
vita racchiusa nei libri, nei film, e in tutta le arti amiche,
che a loro volta attingono alla vita e ce la raccontano in modi inattesi. Ad esempio: io che leggo i diari di Anais Nin, posso non aver esperito ciò che questa grande scrittrice ha vissuto ma posso comunque far mie le sue parole e decidere di portarle in scena, mostrare le idee in esse racchiuse.
Il Teatro nasce sempre da un’urgenza del dire,
ma per avere questa urgenza devo prima
avere qualcosa da dire:
può darsi che, se fortunato, un attore si troverà a lavorare spesso su testi dei quali condivide le idee ad essi sottese; ma, laddove così non fosse (e qui sta la vera sfida attoriale, dove bisogna sfoderare le armi del mestiere), l’attore farà un training tale che gli consentirà di far proprie e assorbire, come personaggio, le idee sottese al testo che dovrà recitare. Quante probabilità ci sono che un’attrice uccida un figlio? Eppure, quell’attrice in scena dovrà essere convincente quando la sua Medea ucciderà i figli. Non sempre l’attore ha la fortuna di portare in scena temi che lo interessano, o che condivide: dovrà trovare un modo, e la tecnica glielo fornirà, per convincerci che le sue azioni sono credibili.
Una volta trovate le idee, anche qualora non ci appartengano, viene da chiedersi ancora: che cos’è questa urgenza del dire?
Mostrare, perché?
Senza voler assegnare un ruolo messianico all’attore, esiste una grande verità che riguarda il Teatro così come, in generale, riguarda tutta l’Arte come testimonianza indelebile della Vita.
Tutte le azioni che l’attore mostra in scena, specialmente quelle che consideriamo più banali, hanno una storia: perciò sono importanti.
Azioni come camminare, raccogliere un fiore, mangiare un dolce, ci trascendono: compiute da altri esseri umani, in modi differenti, esistono prima e dopo di noi.
Dobbiamo riconoscere il valore di queste azioni, esserne consapevoli e mostrarle per ciò che sono:
esse, fanno la Storia. Esse, SONO la Storia dell’Uomo.
Ecco perché il teatro è, ineluttabilmente, morale nel senso etimologico del termine: “mos, moris”, in latino, significa “costume, abitudine, comportamento” riferito all’uomo come essere sociale. Perché il teatro è morale, o non è? Perché, dando valore ad un gesto semplice, come può essere una stretta di mano, ci fa riflettere sul suo valore. Un tempo, lo sappiamo bene, una stretta di mano aveva un valore morale: era un impegno al quale non si poteva venir meno. In qualche misura, il Teatro ci porta a riconoscere il valore supremo della vita, dei piccoli gesti che compongono la storia umana, e capire che
ciascuno di noi, esistendo, è un prolungamento della Storia.
Il teatro, scrive Stella Adler, è “la radiografia spirituale e sociale del tempo”, è stato creato per raccontare alla gente la verità sulla vita e la situazione sociale del suo tempo; esattamente come la cultura in generale è “la valuta della civiltà”, la cartina di tornasole della società:
perciò se il Teatro, se la Cultura, sono corrotte, o assenti, anche la civiltà lo è. Corrotta. Assente.
(Soliloquo nato dal dialogo con Stella Adler, “L’arte della recitazione”)
(In copertina: “Autoritratto”, acrilico su tela, 50 x60)