Volevo scrivere di Bolaño e Bernhard e finalmente ne scrivo ma non concludo Parte 3

Leggi qui (ma non è essenziale farlo e, anzi, ti suggerisco di lasciar perdere) Parte 1 e 2

Una sbronza colossale, una botta, una bella bevuta, un basso che seduce, un bastone che percuote al ritmo di un Be-bop-a-Lula scanzonato e serissimo.

Se dico “B”, se dico colossale e se dico scrittori, tutto nella stessa frase, cosa vi viene in mente?

Una “B”, anzi due, intendo. Bernhard e Bolaño.

B1 e B2, una volta per tutte, per intenderci da qui in avanti.

Non ho ancora finito di leggere né Estinzione2666 ma, si capisce, il vero scrittore sa lanciare nelle prime pagine tutto ciò che – stile e storia – approfondirà, preciserà e scioglierà nelle centinaia che seguono.

B1 è la prosa incalzante, il ritmo, la danza sfrenata e raffinata della voce narrante ossessionata e ossessionante. Una voce che ti afferra dilettandosi della presa implacabile e dilettandoti ti trascina per i capelli, ti sbatte contro il muro della sua, e della tua, nuda coscienza, da un pensiero ricorsivo all’altro, quel pensiero inconfessabile che tu stesso nutri e non vuoi esprimere e che questa voce si fa carico di esprimere al tuo posto.

Una voce che è insieme direttore d’orchestra e musica.

Non si fa scrupoli a gettarci nel caos, questa Voce. Capiamo che un po’ ci disprezza, un po’ ci crede inferiori, perché noi tutti siamo sicuramente, e bisogna che così ci sentiamo, dinnanzi a questa Voce: stupidi, inferiori. Oppure ci inorgogliremo sentendoci esattamente come lui: diversi dalla massa, superiori. In ogni caso, non se ne esce illesi.

Per sciogliermi dalla morsa di B1, mi concedo qualche balzo dentro 2666 di B2 e di nuovo la sbronza, la botta, la bevuta, il basso ma stavolta con meno bastone e più Be-bop-a-Lula. Prendiamo l’ironia, per eempio. B1 non ne è privo ma vola sempre alto con i contenuti mentre B2 ha questa capacità di sorprenderti tipica degli squinternati e degli scrittori sudamericani – che poi sono la stessa cosa – dicendonti che uno “cacava in un bagno orribile” subito dopo aver specificato che “Arcimboldi si rivide, giovane e povero, in una chambre de bonne”. Ammettiamolo, non ti aspettavi che uno nella chambre de bonne potesse “cacare”. La qualità di B2 è spiazzare, mescolare, oscillare tra alto e basso.

Anche B2, come B1, ama le ripetizioni, quel circuito iterativo di parole e di espressioni che non lascia scampo. La voce del narratore, nei suoi pensamenti e nelle sue ruminazioni incessanti, nei suoi spassosi sballottamenti, ti fagocita.

Cos’altro hanno in comune B1 e B2, affabulatori invincibili?

Sono guitti sulla pagina, hanno una presenza onnipervasiva, dominano la scena, si fanno notare sul piancito in cui si agitano una miriade di creature.

Entrambi sanno edificare impalcature mastodontiche in forma di romanzo-mondo. Fin da subito hai la sensazione che i personaggi esistano da sempre, dentro e fuori la pagina: che abbiano già una storia, e una vita, che li precede.

Curiosità da nulla: noto che entrambi parlano dell’Italia nei loro libri.

Leggere del mio paese nelle opere di scrittori che amo, in un periodo nel quale vorrei fuggire, mi aiuta a sopportarlo meglio, il mio paese. Mi aiuta a guardarlo, e guardarmi, con occhi stranieri.

Altro talento di B1 e B2 , come dei grandi in generale, è far aggallare nelle loro opere i libri degli altri in modo fluido, senza cadere in un forzato citazionismo. Quando si scrive è difficile far scorgere tracce di grandezza dietro alla propria “storia qualunque”: lo scrivente inesperto è uno che maneggia citazioni e riferimenti colti in modo maldestro, uno che infilerebbe frasi di Dostoevskij e Kafka alla rinfusa e in modo sgraziato solo per darsi un tono, per così dire.

La letteratura di oggi si confronta sempre con i giganti di ieri. Lo scrittore onesto sa di non aver inventato nulla e ammette – come direbbe David Bowie, per scivolare nel pop – “non sono originale. Sono un ladro di buon gusto”.

B1 e B2 sembrano darci continuamente lezioni di buon gusto.

Chi, nella propria scrittura, ha assorbito e rielaborato anni di letture, non ha bisogno di citare frasi dei maestri ma piuttosto lascia fluire sulla pagina il pensiero degli autori dei quali si è nutrito.

È qui che sta la differenza tra un dilettante e un gigante della scrittura.

(Seguirà parte 4, 5, 6, vedremo come – e se – andrà a finire)

Immagini dal web: foto profilo di R.B. e T.B.

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A bordo del Pequod con Cocco Bill

«Sorrideva di imbarazzo, mio padre, mentre nel sogno di questa notte mi guardava negli occhi. C’era una porta, di fianco a noi, e quand’egli mi chiese se sapevo cosa ci fosse dietro io risposi che non volevo entrare.

“Non ti ho chiesto se vuoi entrare, ma se sai cosa c’è dietro”.

“Meglio che non lo sappia mai papà, se c’è qualcosa d’ignoto sarà orrendo, se c’è qualcosa di familiare sarà triste”»

“Tu, sanguinosa infanzia”, raccolta di racconti brevi, incarna la compulsione del Michele Mari lettore onnivoro e la sua smania catalogatrice. Non ci prova nemmeno a nascondersi, la sua presenza è onnipervasiva. Ogni racconto rappresenta il corpo a corpo dello scrittore con i libri e gli oggetti amati nell’età che forma il desiderio. L’autore si muove danzando tra i marosi e, come nelle copertine della collana Urania, mescola violenza e incanto: amante del lessico aulico, divoratore di colossi della letteratura e fumetti, passa dalla “incruenta lusinga di un decorativo grafismo che radendo a volo la crosta terrestre tutta la coprisse di sempremai nuove curve” a Tintin, Cocco Bill, L’uomo mascherato, Mandrake Nembo Kid, Linus e il primo Paperepopea.

L’imperativo è chiaro: restare fedeli al bambino.

Il mantra è esplicitato a pagina quattordici:

“E ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte”, che sia una macchinina di metallo Mercury, un Winchester da 50 cm di tuo padre, un fortino di legno, un mazzo di figurine di calciatori, gli album di Cocco Bill, i pezzi di un puzzle, le copertine di Urania (collana della quale elenca tutti i titoli), le canzoni degli alpini con le loro “smusicate parole”. Oggetti disseminati qua e là muovono l’azione e stimolano il ricordo. Il mito dell’infanzia è tutto e ogni cosa diventa mito, se guardata con l’agio della distanza.

Nel racconto “L’orrore dei giardinetti” mitologici sono appunti i “giardinetti” in cui si consumano gli svaghi pomeridiani dei bambini: luoghi che si trasformano in “inospiti lande steppose, e pur si millantano in un vezzeggiativo che al buon ragionare trasmette un’idea di abbindolamento, di chi sa mai quale insidia”. E’ lì che vagano le tremende creature, le Antiche Madri, “chtonie come Matres Matutae”, intente a lavorare a maglia mentre si danno al loro “scalcagnato chiacchericcio”.

L’impalcatura si regge sul contrasto: se la materia trattata è, per così dire, umile, semplice, quotidiana, il lessico è alto, ricercato, specialistico; il dispositivo onirico, che trasfigura ogni oggetto, restituisce un’aura epica ai gesti più comuni. Da un punto di vista stilistico ho apprezzato questo libro anche, e soprattutto, perché tradisce ogni regola raccomandata e raccomandabile sull’uso degli aggettivi: “adoperare con cautela”, dice la regola. Mari ne affastella uno dietro l’altro, si diverte con gli elenchi e può concedersi questo lusso perché ogni parola giganteggia (quasi) come un personaggio. Quando leggo ho l’abitudine di appuntare sulle pagine bianche alla fine del libro le parole che non fanno parte del mio vocabolario attivo o delle quali non conosco le sfumature. In questo caso ne ho segnate cinquantadue, alcune delle quali specifiche del lessico marinaresco.

Un tripudio di balismi, putrelle, velabri, medulla, bompressi e bastinaggi, osteriggi e sule, per non parlare di pagina ventuno con i mostri di ogni genere e forma stampati sulle copertine di Urania (potete saltare l’elenco ma consiglio la sbronza da lettura rapida): loricati e squammosi, catafratti, pelosi, bavosi, mucosi, ungulati, fiammanti, bituminosi, lobati, crestati, gassosi, colanti, informi e deformi, araldici, immani, abominevoli, solinghi, aggruppati, prognati, deliranti, insinuanti, chtoni, zoomorfi, cachinnomorfi, metafisici, ulcerati, ... e qui mi fermo ma ne restano appena altri sedici.

Spesso l’autore si diverte a ripetere lo stesso identico concetto usando parole differenti, lo vediamo gongolare sulla pagina e invadere la narrazione con la propria presenza. È il marchio inestinguibile del professore universitario o della persona colta che non teme di sfoggiare un vocabolario ampio e farci fare un giro sulle montagne russe delle parole. Capita pure, qualche volta, che le scelte lessicali finiscano per essere un elemento distraente rispetto alla parte drammatica e troneggiare rispetto alla storia ma glielo perdoniamo. Se ti perdi nella vertigine e nel suono delle parole puoi sempre ritrovarti aggrappandoti a un’immagine evocata capace di dialogare con immagini-ricordo della tua sanguinosa infanzia.

In questo senso, gli oggetti-mito racchiusi nel libro identificano una sorta di lettore ideale.

Leggo il libro di Mari in un periodo in cui frequento il Porto della mia città e mi ritrovo spesso a chiacchierare con i pescatori, osservare le loro mani, guardarli mentre attendono di salpare. In Moby Dick e Gordon Pym ritrovo i loro volti bruciati dal sole e le loro dita callose. Li osservo, immagino di imbarcarmi su un peschereccio, vivere una vita raminga. Torno a Poe, Salgari, Melville e compagnia cantante, nella mia mente si rincorrono le loro voci.

Quello che mi ha convinta meno del libro? I finali di alcuni racconti. A Mari perdoniamo anche questo. Sia perché il finale dell’intero libro è efficace, oltre che intriso di estrema dolcezza, sia perché il valore di questo libro non è tanto nella trama quanto nella scelta delle parole, delle immagini-mito e nelle riflessioni che l’autore costruisce intorno a elementi minimi come una macchinina, il pezzo di un puzzle, un fortino di legno.

Una domanda per gli ossessionati dal mestiere delle parole muove l’azione del racconto “La freccia nera”. La domanda: come cambia un libro, lo stesso libro, se cambia la traduzione? Si tratta davvero dello stesso libro? A porsi il quesito è il protagonista bambino, sommerso da un misto di senso di colpa e vergogna per aver letto un’edizione de “La freccia nera” prima che il padre gliene regalasse un’altra. Il regalo è simbolo del loro legame, perciò gli dispiace di aver già letto il romanzo ma subito dopo pensa che no, in fondo non lo ha letto davvero. Parole diverse, traduzioni diverse, libri diversi, conclude il protagonista: il libro che ha letto non può in alcun modo essere lo stesso regalatogli dal padre.

“…bastava che anche una sola parola fosse diversa da una traduzione all’altra perché l’intima sostanza dei due libri non fosse più sovrapponibile: allora io avrei potuto rileggere la Freccia nera come fosse una nuova storia, e la stortura cosmica che tanto mi stava facendo soffrire sarebbe stata raddrizzata.”

“Tu, sanguinosa infanzia” è un libro di parole che riflettono sulle parole.

E allora decido di rubarne tre dal testo per dimostrarlo a me stessa.

Scelgo la parola “parola” – celebrata in un frammento poetico de “La pazza della porta accanto” di Alda Merini – e la sua etimologia latina “parabola” “similitudine” (in greco παραβολή, a sua volta derivato da παραβάλλω ossia confrontare, mettere a lato). La parola è sempre associata all’oggetto o all’azione cui si lega ma di per sè è solo suono e segno. Quando si fa una selezione così precisa delle parole, come quella che Mari opera, il testo penetra in chi legge su più livelli: emotivo, carnale, evocativo, simbolico, sonoro, intellettuale. Non si esce illesi dal peso specifico di ogni termine: l’intero libro è basato su questa scelta della parola esatta a tal punto che l’autore la pone come tema di un intero racconto, il già citato “La Freccia nera”.

La parola crea la realtà nella quale chi legge viene accompagnato o scaraventato.

Scegliendo parole desuete o attinte a un lessico settoriale Mari ottiene già un effetto straniante in termini di spazio e tempo. L’obiettivo è catapultare il lettore in un tempo perduto, quello bambino. L’effetto di straniamento e la tensione onirica sono la cifra della narrazione.

Un termine come”batrace” (al posto del comunissimo “rana”) ci parla immediatamente di un mondo diverso dal nostro, meno “quotidiano”, anche quando sappiamo (e ci viene continuamente ricordato) che le storie che leggiamo hanno come protagonisti bambini che giocano al parchetto e altre cose amene.

“C’erano una volta otto scrittori che erano lo stesso scrittore”

Così comincia “Otto scrittori”, il racconto dedicato all’agone tra i grandi della letteratura del mare. Qui il tono è fiabesco. Otto voci sono una sola Voce. Cosa dice questa Voce? Lo scopriamo leggendo. Tra gli otto colossi si innesca una gara. Nella penultima sfida Conrad e Stevenson si incontrano a metà strada, nel Pacifico, e mettono i loro libri sul piatto della bilancia. Vince Stevenson con un solo libro (capito quale?) che pesa più degli otto di Conrad. Il punto di vista dell’autore è chiaro: un solo libro di Stevenson ne vale otto di Conrad. Il narratore fa da mediatore. L’ultima sfida, la più epica, vede contrapporsi Mellville e Stevenson. L’esito è schiacciante. Secunda Dass, il messo di Stevenson, così parla di Melville al narratore (il quale si trova su un monte in esilio per non assistere alla lotta finale tra i due giganti della letteratura).

“…questo noi tutti e uomini e pesci ed uccelli abbiamo capito, che un libro come quello nessun uomo può averlo scritto perché quel libro è l’Apocalisse e la sua parola è antica come il boato della Profezia e il suo respiro è il rantolo degli Angeli caduti, e di fronte alla sua immanità tutto è come scherzo di fanciulla e di fronte alla sua smisuratezza tutto è come madrigale”.

Così chiosa la voce narrante definendo il colossale romanzo sulle balene:

“…quel libro in cui i simboli esercitano sul lettore quasi una violenza fisica; quel libro che sembra aggirarsi lentamente intorno al suo tema quando invece è il tema che gira intorno a noi in spire sempre più vorticose; quel libro impuro che travolgendo le regole è nel contempo romanzo, trattato, poema, diario di bordo, tragedia, sacra rappresentazione, ballata; quel libro che interroga incessantemente la Morte incalzandola da presso come la lancia dei ramponieri incalza l’immensa bestia; quel libro dello squarciamento e del colamento, dell’urlo e della demenza, del tormento e della dannazione, no, quel libro non poteva essere stato scritto da un uomo, e per questo io pronunciai “Herman Melville” come avessi detto Aleph o Adonai”.

Eccola, la seconda parola sulla quale mi voglio soffermare. Aleph, dall’ebrarico «toro», è il nome della prima lettera dell’alfabeto ebraico indicata nella scrittura con א. In matematica, indica la potenza di un insieme. Un’altra parola che parla di parole, simbolo di un insieme di segni.

Alla fine del racconto tutti i partecipanti alla sfida – Defoe, London, Conrad, Poe, Salgari, Verne, Melville, Stevenson – si imbarcano sul Pequod. Un’immagine difficile da dimenticare.

Una parola che, come molte altre, ho adorato per il suo potere onomatopeico (onomatopeica è anche la sua orgine) è “sbroffare”, variante di sbruffare, che sta per “spruzzare un liquido dalla bocca o dal naso” ma anche, in modo figurato, “raccontare fatti esagerati e poco credibili, vantarsi, fare lo sbruffone”. Nel gergo dei muratori, sbroffare significa lanciare con la cazzuola la malta su una parete per poi stenderla successivamente. La parola che si fa corpo indica l’azione del “gettare fuori” in vari modi e c’è il richiamo al gettare fuori tipico del raccontare, del parlare.

Nel racconto “Certi verdini” tutto parte da un’azione-ossessione: fare e disfare un puzzle, gesto che riconduce alla metafora del gioco e della vita. La nobilitazione di un’azione semplice simbolo del senso di discontinuità dell’essere. “Puzzle” è la parola-suono inglese per “enigma”, “rompicapo”. Come non pensare a Perec, “La vita istruzioni per l’uso”?

«Solo i pezzi ricomposti assumeranno un carattere leggibile, acquisteranno un senso: isolato, il pezzo di un puzzle non significa niente; è semplicemente una domanda impossibile, sfida opaca; ma se appena riesci […] a connetterlo con uno dei pezzi vicini […] i due pezzi miracolosamente riuniti sono diventati ormai uno. La soluzione del puzzle consisterà solo nel tentare via via tutte le combinazioni plausibili. L’arte del puzzle inizia con i puzzle di legno tagliati a mano quando colui che li fabbrica comincia a porsi tutti i problemi che il giocatore dovrà risolvere, quando, invece di lasciare che il caso imbrogli le piste, vuole sostiituirgli l’astuzia, la trappola, l’illusione […] malgrado le apparenze, non si tratta di un gioco soliatrio: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro»

Madre e figlio protagonisti di “Certi verdini” costruiscono il puzzle solo per distuggerlo. Portano alle estreme conseguenze l’ossessione mescolando i pezzi del puzzle e lavorandoli al buio. Per svagarsi, si sfidano a indovinare di quale puzzle si tratti a partire da un singolo pezzo.

“La solitudine… La solitudine del prigioniero, la solitudine del demiurgo. Seguendo le orme materne imparai la frammentarietà del mondo e la discontinuità dell’essere, imparai ingenuamente le vie della gnosi, imparai che non si dà sapere che non riconduca il molteplice all’uno e non dia forma all’informe; (…) che sconnesso dalla sua sede ogni ente decade”.

Anche in questo gioco ossessivo di madre e figlio veniamo ricondotti all’essenza della narrazione:

“Non c’è molt’altro, nella vita.

No, è quasi tutto laggiù”

Laggiù, nella sanguinosa infanzia e in tutti i ricordi che essa, come un fiume in piena, fa aggallare.

Così si chiude il libro, nel giardino di un ospizio, con un botta e risposta nostalgico e ironico tra due vecchietti in una sera d’estate del 2030.

Il libro del quale (non) ho fatto la recensione è Michele Mari, “Tu, sanguinosa infanzia”, Einaudi

Bisogna essere pazzi, non sognatori

«Nessuno è la conseguenza di niente, ognuno è l’inizio della propria avventura.»

(Michele Vaccari, Urla sempre primavera, p. 351)

Per dire di questo libro provo a ricomporre i frammenti di un puzzle complesso e a porre, e porvi, delle domande.

Di un libro che ne contiene cinque – Rosso, Blu, Nero, Verde, Bianco – e di una Voce che ne racchiude quattro dirò anche attraverso frasi mozze trascritte sulle pagine finali, quelle bianche che nessuno usa, che restano intonse e che io ho sempre amato perché mi permettono di raccontare una storia parallela a quella di chi ha scritto.

Ma entriamo nella Storia.

Avete presente il momento in cui qualcuno girava un video per sbaglio e

«di sfondo, aveva la Storia che stava cambiando per sempre, l’attimo in cui è successo, l’istante a partire dal quale nulla sarebbe stato mai più come prima.»?

Genova, luglio 2001, per dirne uno.

Non è che da allora, come popolo, abbiamo perso qualcosa?

Il coraggio, per dirne una.

«Forse è quello che ci interessa. Il momento in cui niente è più come prima, quello ci riguarda tutti.»

Sapreste dire quali, e quanti, sono i momenti della Storia in cui è accaduto?

E dove eravate, in quel momento?

Sono domande che mi sono posta, leggendo, e che evocano una responsabilità cui ciascuno è chiamato come “essere umano”, prima, e come “civis”, poi; entrambe parole impegnative, cariche di tensione e promesse.

Io non c’ero, eppure tutti noi c’eravamo. Abbiamo guardato a distanza di sicurezza.

Siamo rimasti inerti, inermi, sconvolti, il fracasso delle sirene ci ha squassato le vene.

Avete visto cosa accade se non state zitti e buoni? Dicevano frastuono e schegge impazzite.

Che fine fanno, e che vita, quelli che restano dopo aver visto sangue e morte a distanza di sicurezza?

Il problema è che

«tutti vogliono ascoltare la storia di chi è scampato, di chi ha sconfitto il destino, ovvio, ma appena passa la notizia nessuno ci tiene più davvero, nessuno prova emozione per chi ce la fa. I morti, quelli fanno proseliti. Senza la morte, manco Gesù sarebbe mai stato qualcuno.

(…) Crediamo di combatterla ma conservare la memoria è il nostro modo di omaggiarne la potenza, l’invincibilità. La morte ci rende vivi, eroici.»

Ora immaginate….

…un governo di anziani, la Venerata Gherusia, e un’operazione chiamata “fine nascite”:

si proibisce alle donne di avere figli

si dispone che i bambini entro i due anni vengano portati alla Scuola Speciale di Rassegnazione Interiore e preparati al futuro programmato per tutti

si obbliga i più grandi a far parte dei servizi di provata utilità della Gherusia come autisti, maggiordomi, chef, camierieri, giacchè per la Venerata Gherusia “gioventù fa rima con servitù”.

Siamo in un mondo in cui generare vita, o essere bambini, è un reato.

Un mondo senza futuro, un mondo storto, rotto il cielo, guasta la natura, guasto l’uomo, un mondo devastato sotto ogni punto di vista, popolato da gente che si esprime in un linguaggio balbettante di suoni sgrammaticati, un impasto di risibili borborigmi.

Ora immaginate

che esista una donna capace di penetrare nella mente delle persone e cambiare i loro sogni, cambiare i sogni di questo (proprio questo) Paese addormentato.

La speranza è una bambina che non sarebbe dovuta nascere e che può far accadere l’improbabile.

Direbbe Sir Arthur Conan Doyle «Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità.»

La bambina si chiama Egle e, quando leggiamo le prime pagine, ancora “non esiste”.

La madre, Zelinda, è in fuga; la bambina è dentro di lei e lei vuole salvarla. La salva, e in eredità le lascia delle registrazioni, le tatua sul corpo una mappa nella quale è indicato il punto esatto in cui troverà la Venerata Gherusia: se sarà necessario per fermare “l’estinzione programmata”, Egle saprà dove stanare il nemico. Il compito di farle comprendere l’importanza di questa missione sarà di Spartaco, ex partigiano queer: suo nonno.

«Ogni genitore porta con sé un rimpianto irrisolto, un sogno mancato, un obbligo involontario che tramanda alla propria discendenza.»

In questo libro ci sono donne coraggiose: una madre che affida alla figlia l’onere della Rivoluzione; una creatura generata violando la legge, la sola donna che potrebbe salvare un Paese votato all’annientamento.

Troviamo Zelinda immersa in un pensiero che regge l’impianto della storia:

«…le guardo e lo so: siamo l’unica guerra che ha senso oggi: da un lato le barbe, le calvizie, le prostatiti; dall’altro le forzate dell’ecografie, le abusive, le creatrici.»

Perché la società del futuro non basta sognarla di notte; poi devi svegliarti e convertire al sogno il tuo esercito personale, persuadere quelli che hanno smesso di credere che un cambiamento sia possibile.

Questa fede ha delle conseguenze. Sangue, ossa, sudore, muscoli. Una questione di Resistenza, una questione di carne incisa dal tempo. Una ferita.

Il tempo e la cicatrice

Egle, come spesso i viaggiatori nel tempo (vedi il celebre romanzo di H. G. Wells) ha una “cicatrice”, un segno sul corpo: in questo caso il tatuaggio di una mappa.

Qualcosa di simile accade in Dark, serie tv tedesca dalle atmosfere cupe e seducenti che ho seguito parallelamente alla lettura del libro e con la quale ho trovato diverse affinità.

L’intreccio della prima stagione si svolge su tre piani temporali principali: 1953, 1986, 2019. Nella seconda stagione le vicende si estendono anche nel 1921 e nel 2052, nella terza le vicende giungono fino al 1888. Un intreccio complesso, un montaggio labirintico e avvincente che obbliga a non porsi troppe domande, a spostare continuamente il punto di vista e che continuamente sorprende; nella storia i personaggi possono muoversi nel tempo ma non possono modificare il loro destino né quello degli altri; il passato è immutabile, la sorte di ciascuno è segnata in maniera ineluttabile.

Anche il romanzo di Vaccari trova la sua forza, capace di frantumare i tradizionali generi e le aspettative, proprio nella scansione interna; sorprende per questo inatteso spostamento su più piani temporali in un arco di tempo che va dall’8 settembre 1943 all’8 settembre 2043.

Come in “Urla sempre primavera”, anche nel mondo di Dark esiste una minaccia di estinzione finale (ma non dirò di più perché l’invito racchiuso in questa riflessione è a guardare, oltre che a leggere).

I simboli nelle parole. Mansplaining uber alles

«…in una Rivoluzione, sono i simboli a guidare le azioni, mai viceversa»

Di simboli è ricchissimo questo romanzo.

Per dire del linguaggio proteiforme usato da Vaccari, che mi pare simbolo di un mondo frantumato (interno ed esterno ai narratori) potrei dire delle quattro Voci narranti, o del mix di frammenti poetici e termini volgari, toni lirici e altrove rabbiosi, violenti; invece voglio soffermarmi su una porzione più minuta di testo che a mio avviso illumina il potenziale di innovazione racchiuso nell’operazione di mescidazione lessicale.

A pagina 60 trovo questo magnifico “mansplaining uber alles”, espressione che Zelinda usa per definire il tono usato dal marito nei suoi confronti.

Mansplaining è un neologismo di orgine inglese (man + splaining, dal gerundio del verbo explain, spiegare) adoperato nel contesto femminista per definire l’intollerabile atteggiamento paternalistico di uomini (ma non solo) inclini a spiegare a una donna con toni di condiscendenza e/o sicumera qualcosa di ovvio; se lo fanno è perché pensano di saperne comunque più della donna o che lei non capisca mai fino in fondo, secondo l’adagio duro a morire che quando un uomo parla, la donna deve star zitta e ascoltare perché comunque l’uomo ne sa più di lei sulla questione (anche su quella di cui lei sarebbe competente).

Mi torna alla mente una scena, sulla quale peraltro ho riso moltissimo, dell’ottava stagione di Big Bang Theory in cui Sheldon Cooper al cospetto del rettore fa il mansplainer con la fidanzata, Amy Farrah Fowler: glielo perdoniamo perché è un genio, perché il mansplainer lo fa anche con gli amici uomini e perchè sappiamo che in fondo è un cuoredolce.

Uber alles, al di sopra di tutto”, è l’espressione contenuta nella prima strofa dell’inno tedesco. La frase “Deutschland über alles” fu adoperata dal nazismo per mettere in luce il predominio della Germania su tutti gli altri popoli; di per sé il brano è solo una ballata romantica celebrativa dell’unità nazionale ma il nazismo, in questo come in altri casi, piegò la prima strofa al servizio dell’ideologia.

Cultura al servizio del potere, vi dice niente?

Nel 1945 gli Alleati vietarono che questa canzone fosse utilizzata come Inno nazionale tedesco. L’espressione “uber alles” permane oggigiorno nel linguaggio comune per indicare qualcosa che ha un’importanza superiore al resto (o che viene prima) ma io credo che un autore come Vaccari, che scrive un romanzo fortemente politico, nel divertirsi a congiungere le due espressioni in Mansplaining uber alles, avesse in mente tutti i livelli di lettura ai quali si presta l’operazione.

Patriarcato + ideologie autoritarie: una mortifera e arcinota storia di un amore (sbagliato).

Per dire ancora della varietà del linguaggio, le pagine 70-72 contengono un notiziario con l’inserzione di parole e sintagmi consunti tipici del giornalese (“carneficina”, “catastrofe di questa portata”, “brutale aggressione”, “racconto straziante”, ecc…)

Che fare, mentre tutto intorno crolla?

La domanda fondamentale del libro la trovo a pagina 369:

dobbiamo restare a casa nostra e coltivare una piccola felicità mentre tutto intorno crolla?

La risposta sembra esserci:

«nessun amore vale il prezzo di una rivoluzione che possa ridare tanta vita al mondo»

Ma la domanda resta ed è ciascuno di noi che, sembra dirci l’autore, dovrebbe rivolgerla a se stesso. Sì, dovrebbe: è questo che sembra dire. Come una cogenza, una necessità inderogabile.

Chi è disposto a barattare la propria felicità, il proprio amore privato per mettersi al servizio della collettività? Chi ha le spalle tanto forti da reggere il sacrificio?

Forse, sembra urlare il libro, se solo ci muovessimo per tempo, potrebbe non arrivare il momento in cui saremo comunque costretti a farlo.

Meno uomini e più cani pazzi?

«Per noi uomini, c’è se sempre una casa, un porto sicuro, un luogo a cui tronare. Ed è questo partire e andare il problema che non hanno gli Animali. Un partire che può non restituirti a chi tiene a te, un restare che può farti rimpiangere per sempre di non essere andato. Ovunque vanno, loro si adattano, è la loro nuova casa, non provano nostalgia, come quando giunsero qui e dopo un secondo si erano abituati alla rada erba a disposizione.» (p. 372)

Dimenticatela, sembra dire questa Voce, uccidetela la maledetta nostalgia (di casa, del passato, di qualsiasi cosa). Siate un po’ meno ragionevoli, più pazzi, più sognatori. Siate come gli animali.

Ovunque viene ribadito l’incitamento ad essere pericolosi. Vaccari non scompare dietro ai suoi personaggi ma lancia strali, colpisce e affonda, e fa dire a Spartaco (che parla di sé stesso intercambiabilmente al maschile e al femminile) che il dibattito non serve a niente,

«uccide la politica, alimenta la connivenza, è l’orgasmo del compromesso»; persino il movimento queer, potenzialmente rivoluzionario date le premesse, ha perso un occasione: bisognava usare la violenza, bisognava essere terribili, essere cani pazzi da battaglia non fare feste di carnevale con le parrucche. Bisognava.

Un’altra risposta possibile al da farsi, la trovo qui:

«Quando muori, diventi il sogno di qualcuno.» (p. 402)

che, oltre ad essere una chiamata alle armi vera e propria, è una delle frasi più poetiche dell’intero libro (oltre 400 pagine).

Un libro per pazzi, non per sognatori

All’inzio, leggendo troppe volte la parola “sogno”, ho creduto davvero che fosse un libro per sognatori.

Ora non sono più tanto d’accordo, né con il libro né con me stessa: ripensandoci, riandando alla violenza senza misura, al coraggio feroce e sfrenato di essere una voce polemica, incazzata, divergente – con tutte le ricadute che questo può avere, dentro e fuori dal libro – sono più convinta che questo sia un libro per pazzi, non per sognatori.

Il pazzo avrà sempre dei nemici; e anche questo libro, come la speranza e il coraggio che invoca, sembra chiedere a gran voce di averne.

Per quest’ultima suggestione la colpa è di Pavese, di questa sua frase che da sempre mi ossessiona:

«Bisogna essere pazzi, non sognatori. Essere al di qua dell’assestamento, non al di là. Un pazzo può ancora rinsavire, ma al sognatore non resta che staccarsi da terra. Il pazzo ha dei nemici. Il sognatore non ha che se stesso.

[Cesare Pavese – Il mestiere di vivere – Diario 1935-1950]

Il libro di cui (non) ho fatto la recensione è “Urla sempre primavera” di Michele Vaccari, NN Editore

Qui è dove (non) vi racconto “Io sono la bestia” di Andrea Donaera, altro libro edito da NN Editore che, nel panorama dell’editoria contemporanea italiana (e non), offre un contributo essenziale alla scoperta e diffusione di voci nuove (con grande attenzione alle narrazioni in grado di sperimentare e innovare).

Una tempesta elettrica nel cielo notturno di Città del Messico

Avvertenza: questa recensione si può pubblicare solo durante una notte insonne. Raccomando lettura al buio, preferibilemente di giorno. Meglio la notte. Comunque a occhi chiusi.

In questa storia ti chiami Bianca, hai 16 anni, o 17 (non importa), smetti di andare a scuola, e tuo fratello pure – passate le giornate a guardare i porno di Tonia Water, quiz e serie tv scadenti sulla vostra vita (s)caduta – e mangi per convenzione. Sei quasi morta ma non te ne curi. Lavori come parrucchiera, ogni giorno piazzi del cibo in tavola con noncuranza, ceni o non ceni, fa lo stesso. Non te ne curi. Fra poco sarai madre, fra poco sarai una donna sposata ma per ora sei solo una delinquente, Bianca. È questo che sei. Di passare dalla miseria alla delinquenza non hai avuto paura. Ed è da qui che inizi a raccontare. Da quando la luce è diventata insopportabile, da quando il futuro ha cessato di esistere.

«Alla fine gli dissi che a me del futuro non importava, che mi venivano delle idee, ma che quelle idee, se ci pensavo bene, non si proiettavano mai verso il futuro.

E verso cosa allora’” gridò mio fratello.

Verso niente”

[…] Chiudere gli occhi o tenerli aperti era la stessa cosa»

In questa storia vivono nel buio, sorella e fratello, o forse sono già morti: potrebbero benissimo esserlo, fantasmi o morti, trattandosi di un libro di Roberto Bolaño.

Potrebbe essere un fantasma a raccontare questa storia.

Qualche volta penso che Bolaño lo sia stato: un fantasma, dico.

Come vive Bianca?

Bianca cade spesso in un sogno, mentre vive, e anche noi potremmo aver sognato di aver letto questa storia, specie se leggere ci ha indotti a ignorare il gelo che ci spezzava le ossa sulla panchina di un parco in una mattina di novembre.

Questa storia pare scritta da un fantasma ed è questo il Bolaño che amo: elegante, preciso, come una stilettata infila personaggi caduti dentro una vicenda sozza e indigesta.

«Da quel momento in poi i giorni cambiarono. Voglio dire, il corso dei giorni. Voglio dire, quello che unisce e al tempo stesso segna il confine tra un giorno e l’altro. Di colpo la notte smise di esistere e fu un continuo di luce e sole.»

È tutto uno sprecisare, Bolaño, un aggiungere dettagli che invece che spiegare, confondono: «voglio dire», dice per spiegare meglio, e intanto sfuma il confine.

Le opere brevi, talvolta cosiddette «minori», di un autore, sono spesso tanto perfette, tanto impeccabili che non si dovrebbe mai leggerle. Fanno pensare che non valga la pena tentare di meglio. In queste opere, non una parola fuori posto.

«Un romanzetto lumpen» è una di queste opere.

Ecco com’è andata. Avevo appena letto la biografia di Roberto Bolaño, uno scrittore che ha lottato a lungo per farsi pubblicare, che credeva con ferocia nel valore della sua scrittura e non si è mai arreso di fronte ai numerosi rifiuti. Avevo assaggiato i suoi «libri di cui tutti i bolaniani» parlano: «2666» e «Detective selvaggi» ma poi, in quegli angoli bui delle vecchie librerie dove si annidano le copie difettose scartate dagli scaffali in vista, ho trovato questa novella che mi ha sedotta per il titolo e il colore della copertina – un giallo sporco da bordello di periferia – Adelphi.

Ho messo da parte i due massicci volumi e mi sono fiondata su una panchina per leggere. Ho finito e, come accade con le ossessioni, ho subito ricominciato. In apnea.

Cosè «Un romanzetto lumpen»?

La trama, di per sé, è tanto semplice quanto assurda, surreale. Fratello e sorella adolescenti diventati orfani, genitori morti in un incidente stradale: i due sono travolti dal vortice della misera e del degrado, prima fisico poi morale. Tutta la vicenda è percorsa, e percossa, dal loro bisogno materiale, una fame atavica, sordida, una smania: l’urgenza dei personaggi è quella di guadagnarsi da vivere. I due sono soli, nessuno li vuole bene, nessuno si occuperà di loro. Smettono di andare a scuola e iniziano a lavorare. Lui in una palestra, lei come parrucchiera. Il romanzetto è ambientato nella periferia di Roma, ma potrebbe trattarsi di una periferia qualunque abitata da creature vinte che si trascinano sciabattando senza lavoro e senza scopo, tra un pasto e l’altro, nel labirinto della miseria. Le difficoltà economiche, l’abbandono della scuola, il lavoro senza scopo e senza futuro, le relazioni malate, consunte, le vite bruciate. Mi pare di sentirlo, il cielo elettrico di Città del Messico che incombe sulla periferia romana.

A pagina 19 fratello e sorella hanno già mollato la scuola e si iniettano dosi massicce di programmi televisivi capaci a forte impatto lobotomizzante sul cervello, specie i porno a noleggio, adottati come prima fonte di educazione sessuale dal fratello.

Degrado. Abbandono. Sudiciume. Fratello e sorella giudicano il film che stanno guardando “orribile” ma lo guardano ugualmente, fino in fondo: così come la loro vita è orribile, sudicia, e loro vi si sprofondano, attingono a piene mani, senza reagire. Dopo il film, per non farsi mancare nulla, tracannano come tavernello quiz e serie tv di bassa lega.

La storia è divisa in brevi paragrafi. Ogni inizio e fine paragrafo sono impeccabili. Come il resto, ma di più.

Il bolognese e il libico

L’evento che squilibra e movimenta la monotona esistenza dei gemelli è l’arrivo di due uomini senza nome che con tutta la violenza della violazione dell’intimità dormono nel letto dei genitori morti. Casa, la parola intima, è violata. Eppure i due intrusi puliscono quella casa da cima a fondo, si mostrano servizievoli e gentili. L’autore fa fare ai due personaggi l’azione più semplice e inattesa, quella che farebbe una madre, un gesto di cura: il bolognese e il libico (o marocchino, i contorni delle cose e delle persone sono sfumati nella memoria di chi racconta, al solito) fanno cose come pulire, cucinare, fare la spesa. I due entrano in scena all’improvviso: conosciuti in palestra dal fratello e da lui introdotti in casa come amici-ospiti. Bianca dice di aver ascoltato i loro nomi e averli dimenticati. Dimenticare i nomi di due uomini che hanno vissuto in casa tua, con i quali ha condiviso amplessi al buio, ripetutamente. Nulla è importante, nulla è abbastanza reale, nulla è ricordato o ricordabile con precisione.

I due uomini sembrano gemelli, si somigliano. Pare abbiano fatto un patto di sangue. Anche loro fratelli, in qualche modo. Tutto ciò che Bianca ricorda di loro è vago, anche il ruolo che ricoprono in palestra, “prestigioso o irrilevante”, che importa?

Questo cielo che incombe sulle loro vite è ogni giorno più strano, sembra di vivere su un altro pianeta, dice Bianca.

Una delle azioni che i personaggi di Bolaño fanno spesso è guardare il cielo e questo cielo ha qualcosa di surreale. Bolaño fa coesistere delicatezza e turpitudine, dimensione onirica e carnale, eleganza e squallore.

Chi è Bianca?

Bianca racconta, riflette e si pone domande con toni che ci consegnano una voce narrante consapevole della propria sciagura e al contempo totalmente rassegnata.

«…mi avevano guardato da una vicinanza a cui nessuno (eccetto mio fratello) aveva avuto accesso. Che cosa avevano visto? Mi chiedevo. Che viso, che occhi avevano visto? […] Ora so che la vicinanza non esiste. Qualcuno ha sempre gli occhi chiusi. Tu vedi quando l’altro non vede. L’altro vede quando tu non vedi.

[…] Ero cieca, ma ero il metro su cui si misurava la libertà di tutti.

[…] Avere gli occhi aperti, d’altra parte, equivale a consumarsi. Io mi consumavo.»

Bianca aspetta che nella vita accada qualcosa ma “non succede nulla”.

Da quando i genitori sono morti su quella spaventosa strada del sud, lei non ricorda quale, Bianca vede bene al buio.

Bianca pensa ai visi pesti dei due sconosciuti ospiti in casa sua, li sogna; nottetempo uno di loro (non si sa bene chi) entra nella sua stanza e fa sesso con lei. Inizia così, e ci pare tutto normale, per il modo fluido e rassegnato in cui l’evento ci viene consegnato.

Bianca si chiede: si è messo il preservativo sul pene o qualcos’altro?

E resta tutto così, sfumato.

Bianca si chiede: sono le vie che cambiano o sono io?

Fa sesso con lo sconosciuto tutte le sere, una dopo l’altra, e non dorme, e arriva al lavoro sfatta e, dice, era «come se la luna mi stesse sfinendo». La luna. Una notte chiude la porta a chiave ma non cambia niente: fa sesso, conta le piastrelle, si annoia, guarda un quiz, si annoia, le conta ancora, torna a letto, accende la tv, la spegne. Passa dal letto dei genitori, alla nave che affonda, alla bara. Il passo dall’abisso di noia, solitudine e povertà alla delinquenza è così breve. Così breve quando si resta soli.

Maciste, l’impensabile

Quando l’impensabile sembra tutto già scritto, entra in scena anche Maciste, un ex culturista, attore di film di serie B degli anni cinquanta, interprete di personaggi mitologici. Maciste è cieco. Sulla sua casa gravano i segni dell’abbandono: la pittura della facciata scrostata, il giardino-cimitero, il buio nella stanza dell’amore. E Bianca lì si trova bene, al buio è abituata, al buio vede. Il fratello e i due sconosciuti hanno un piano: trovare una cassaforte in casa del cieco; per farlo, useranno Bianca. Lascio il resto all’immaginazione.

Molte frasi di Bolaño contengono la congiuzione disgiuntiva coordinativa “o” per contrapporre due realtà, o cose, o condizioni nessuna delle quali è quella giusta, o forse una delle due lo è ma poco importa: la realtà si perde nella seducente circolarità di quella “o”. In generale va così: la cosa che il personaggio nomina potrebbe essere una cosa o quell’altra, fa lo stesso perché non sapremo mai se di cosa reale o caduta dal sogno si tratta, e non importa. Nella scrittura Bolaño procede per contrasti, assoluti, ripetizioni: forme della scrittura che si incidono sulla mente di chi legge.

Verso la fine Bianca, che sogna anche a luci accese, dichiara spesso che le pare di vivere in un sogno, fatto di miseria e sozzura umana ma pur sempre un sogno, e lo dichiara che non è più in grado di distinguere il sogno dal vero. Lo dichiara e io che leggo comincio a pensare, verso la fine, che anche tutto ciò che ha raccontato sia frutto della sua immaginazione.

Chissà se è vera, la sua vita, vera nel suo essere finzione, simulacro di vita ma pur sempre vera. O forse a parlare è una sorta di “voce dentro”, la voce di Bianca che, immagino, una notte si addormentò e cominciò a sognare tutto quello che leggo. Potrebbe farci un film, Lynch, su Bianca e suo fratello. Se fosse un film di Lynch vedremmo all’improvviso un dettaglio straniante, un oggetto fuori posto che ci farebbe capire che non siamo più nella realtà. Ma qui tutto sembra al suo posto, regolare, quotidiano, piatto e ripetitivo in un mondo che regolare non è, e che infatti Bolaño disegna come assurdo, paradossale, capovolto, vomitato dal grembo di una madre degenere.

«Un romanzetto lumpen», titolo da autore che ama ironizzare sui suoi capolavori e sa di poterselo permettere, avrebbe potuto chiamarsi anche «una storiella sordida» ma sarebbe stato didascalico. E Bolaño è tutto fuorchè didascalico.

Ecco l’incipit:

«Ormai sono una madre e anche una donna sposata, ma fino a non molto tempo fa ero una delinquente. Mio fratello e io eravamo rimasti orfani. Questa cosa in qualche modo giustificava tutto. Non avevamo nessuno. E tutto era successo dalla sera alla mattina. I nostri genitori erano morti in un incidente d’auto durante le prime vacanze che facevano da soli, su una strada vicino a Napoli, credo, o su un’altra orribile strada del Sud.[…] Da quel momento in poi i giorni cambiarono. Voglio dire, il corso dei giorni. Voglio dire, quello che unisce e al tempo stesso segna il confine tra un giorno e l’altro. Di colpo la notte smise di esistere e fu un continuo di luce e sole. […] Luce e sole ed esplosione di finestre.»

Bolaño, chi?

Pare che da adolescente questo scrittore si sia chiuso in una biblioteca di Città del Messico per divorare libri: lesse di tutto, dai classici inglesi e francesi alla cattiva letteratura. Come faceva uno scrittore cileno, si domandano tutti, a conoscere Nicola di Bari e Mino Reitano? Aveva una cultura e, soprattutto, una curiosità vorace, senza confini. Tutto serve, diceva, anche la cattiva letteratura: questa serve non per apprendere lo stile, cosa che un cattivo romanzo non ti insegna, ma per assorbire temi o strutture. Bolaño, che scrive buona letteratura, è poeta della parola esatta e musicale. Fece molta fatica a farsi pubblicare, dicevo, ma non cedette mai: aveva talmente tanta fede nella propria scrittura da conservare persino i tovagliolini di carta sui quali scriveva, come apprendo da un’intervista a Ilide Carmignani, sua traduttrice in Adelphi. Ora tutte le opere, persino i frammenti e gli incompiuti, cose minime che un autore si vergognerebbe di mostrare, sono nel catalogo della casa editrice.

Tornerò a parlare di questo scrittore appena avrò finito di leggere i due romanzi colossi di cui sopra, in particolare 2666 (anche se non so cosa potrei dire di rilevante: è un libro che dovrebbe scoraggiare chinque dall’aggiungere una parola, dopo aver letto). Un romanzo che non è solo uno: una sbronza colossale, una botta, una bella bevuta, un basso che seduce no, un bastone che percuote al ritmo di un Be-bop-a-Lula scanzonato e serissimo. Perché il mondo di Bolaño è davvero sterminato.

Maizo, la recensione sulla rivista Suite italiana

«Cos’è Maizo?

Un suono, anzi due “il rumore di mandibole che si serranno”, “il frinire delle cicale”. 

Modi di toccare, con mani e piedi “passi che sollevano polvere e paura”, “mani che frugano, indagano, spezzano”. Odori, tre (a rigore due, ma la letteratura, si sa, gioca con i numeri e le cose) “odore di uova, zolfo e timore”.

Così inizia “Maizo” di Elena G. Mirabelli, attraversando i sensi. E, subito, al corpo che corre, fugge e preme sulle cose, si aggiunge il pensiero. Quelle tre domande  “ci punisce? Ci mette alla prova? Quanto buio è ancora necessario attraversare?” che preparano l’arrivo di tre personaggi – Clio, Eco, Mitja – bambini rotti, protagonisti di una fuga inesausta verso il Desiderio.»

Ho recensito la novella “Maizo” di E.G. Mirabelli, Zona 42 Edizioni per la rivista letteraria Suite Italiana.

Buona lettura!

In evidenza

Scrittura e boxe. La Lupa sul ring e gli incontri su misura

Cos’è per te la scrittura? Mi chiedete.

Un corpo a corpo con le parole, rispondo.

La boxe per me è da sempre, specialmente dopo aver iniziato a praticarla, la metafora perfetta della scrittura.

Incontri su misura, le informazioni

Lord Byron e John Keats erano grandi ammiratori della nobile arte. George Bernard Shaw ne parla nel racconto Cashel Byron Profession’s.

Il padre di Bolaño era pugile. Tra i 16 e i 18 anni Cortázar frequentò gli incontri di boxe e iniziò a formarsi una sua “filosofia della boxe”

Arthur Conan Doyle fece di Sherlock Holmes un pugile amatore e scrisse una dozzina di racconti nel libro pubblicato nel 1910 The Croxley Master and Other Tales of the Ring and Camp .

Ernst Hemingway, appassionato di pugilato, da giovane aveva praticato. Il racconto Cinquanta bigliettoni lo dedica a a un pugile fallito. Il miglior romanzo sulla boxe, secondo Hemingway, è Il professionista di W. C. Heinz, che racconta di Eddie Brown, atleta mediocre messo di fronte alla possibilità di combattere per il titolo.

Jack London diceva: «Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi – cosa impossibile – che re d’Inghilterra o presidente degli Stati Uniti o kaiser di Germania»

E l’elenco potrebbe continuare.

Portiamo fascette e guantoni, ci mettiamo all’angolo, ci prendiamo cura di voi e, per ogni round, immaginiamo una buona combinazione su misura.

Che fate, salite sul ring?

Ecco un assaggio di cosa faremo, nei prossimi giorni vi dirò di più.

Accogliendo le vostre prime richieste, la fucina di scrittura Trovare una Voce vi invita sul ring a partire dal 7 febbraio per una serie di “incontri su misura”.

🥊Come funzionano gli incontri su misura?

Gli incontri su misura sono incontri riservati a piccoli gruppi (max 2-3 persone) o individuali della durata di 2-3 ore ciascuno (in base alle esigenze).

All’interno di ogni incontro si svolgeranno una serie di round di scrittura da 5-10-15-20 minuti.

🥊Quali sono le attività possibili all’interno degli incontri?

In base alle tue/vostre esigenze (le uniremo e formeremo il gruppo o ti proporremo l’incontro individuale):

-lettura critica del testo

-esercizi di scrittura creativa

-coaching per la stesura di un testo creativo

-correzione bozze e revisione

-coaching comunicazione (scritta e/o orale)

-supporto a vario titolo rivolto a chi scrive o desidera iniziare a scrivere

🥊Ogni incontro è “su misura”, cioè tarato sui tuoi desideri e bisogni e sulle tue qualità specifiche

🥊La fucina si avvale di pratiche che, attingendo alla pratica della mindfulness e ai recenti sviluppi delle neuroscienze, potremmo definire di “scrittura integrata”: nella scrittura confluiranno nozioni teoriche e pratiche attinte a discipline quali meditazione, recitazione teatrale, cinema, fumetto, neuroscienze e, naturalmente, la boxe!

✒Sei curios*? Vuoi saperne di più?

Trovi tutte le novità sulle pagine social del progetto La Lupa 🥊

Dust to dust I gasp for air

“…arrendersi, no, ma,
fatti miei, alla fin fine,
che affondo in un amore da canzone:
che ogni sguardo mi è una rivoluzione…”

Michele Trevi, quindici anni, venti poesie. Stop. Fine. Uno qualunque, come te e come me. Tutti giovani tranne lui, tutti giovani tranne noi. Inesistenza che insiste e genera storia, assenza che è essenza dell’azione di chi resta. La morte, nel raccontare, è inizio di ogni cosa: della creazione e della creatura, mostro (s)fatto di brandelli “si erano mangiati a vicenda nel tentativo disperato di liberarsi”, brandelli di mille creature intrecciate l’un l’altra.

Come dopo aver letto Binari di Monica Pezzella, i muscoli dello stomaco mescolano le Voci con gli acidi e gli enzimi per disintegrarle ma pezzi di corpi schizzati fuori restano incollati alle pareti dell’intestino. Non vanno giù. Così ho messo in cuffia “Raise the dead” e “War” dei Bathory, in loop, ho riletto le poesie di Michele Trevi, qualche passaggio de “La Bella e la Bestia” e ho iniziato a scrivere.

“Dust to dust
I gasp for air
I scream for sight
and fight against
torment and dread
Calling the vengeance
I tear at the lid
and promise to raise
from the dead

Raise the dead

Chi è Mimì? Un corpo: la gobba. Una lettera: “B”.

Bestia basta bara. Come un singhiozzo, e Mimì infatti piange e spara e ad ogni lacrima, ad ogni colpo di pistola ti ficca la sua “b” in gola come un montante ben assestato sul busto, dritto al plesso solare, di quelli che quando arriva, letteralmente, ti spezza il fiato. E ti senti morire.

Con rigore geometrico e allucinato Mimì piange e uccide, uccide e piange, con quel nome, Mimì, che fa quasi tenerezza: una specie di miagolìo, squittìo pietoso, un suono squillante: Mimì.

Fa quasi ridere, quel nome, fa pisciare nelle mutande dal ridere. Che cazzo di nome per un boss, Mimì. Una cosa da niente, una nota stonata. Ma è dallo scarto tra suono e senso delle parole, è dal conflitto che nasce il grido, nasce l’orrore.

“è un soffitto ammuffito e senza voglia,
è una geografia di una qualche vita
lasciata non finita su una soglia,
atroce e uguale mentre tutto cambia –
e mai il coraggio di un colpo di grazia,
e mai il coraggio di un colpo di grazia.”

Chi è Veli? Il guardiano che è anche il prigioniero.

Veli gettato lì nel capanno come un sacco di munnizza, abbandonato, deve controllare Nicole, la sconosciuta alla quale sovrappone l’immagine della donna amata, Arianna, altra assenza alla quale un personaggio si rivolge.

Perché tutti, in questo libro, in un modo o nell’altro, parlano ai morti, passati e futuri, agli assenti, o agiscono per causa loro.

Ai vivi non c’è niente da dire, con i vivi bisogna agire: prendere la pistola, il coltello, e agire.

Anche le parole sono una maschera. Una forma altra della stilettata.

E che nome è Veli? Un suono delicato, che scivola, lento, quasi patetico nel suo dolore.

“nei corridoi liceali
dove c’è penombra di anime e cuori
e cazzi sui muri e banchi scheggiati

e le ore si contano e i passi pure
in ogni aula un pianto o una risata
e mai mai mai io mai così tanto vuoto
lontano crepato non so cos’altro
(sono una nazione invasa da chiunque
una canzone stonata da chiunque
truciolato mangiucchiato da chiunque
ma specialmente ovviamente da te”

Chi è Nicole?

Qualcuno da accusare, qualcuno da rinchiudere, qualcuno su cui pesano simulacri di altri corpi, corpo che muove pensieri e e azioni. Per lei Michele suo – così dice, così pensa Mimì, come un’ossessione – per lei si è ucciso.

Come Nicole anche Arianna è prigioniera – Nicole nel capanno, Arianna nella propria casa –  e come Arianna anche Nicole vuole fuggire. Su di lei Veli sovrappone l’immagine di Arianna, si diceva. Nicole è corpo-funzione: genera ricordi, pensieri, azioni, sensazioni.

Nicole è corpo che trema, che ha paura del ricordo del corpo morto di suo padre, non della propria morte: se anche sopravvivesse dovrebbe convivere con il pensiero del corpo del padre.

Suddenly powers comes
from within
Muscles and mind are
filled with wrath
I burst out in frenzy
powers of hell
and break up the
tomb and the dark

Raise the dead”

Chi è Marta? Madre, di Arianna e Michele. Un suono, qualcosa di duro con “tr” e “dr” dentro ma anche qualcosa di dolce con “ese” “ase” e “sf”: una pietra, madre, misteriosa, pietra di una cattedrale, con cui furono costruite “le chiese e le case più vecchie del paese (…) quella pietra che si sfarina appena la sfiori”.

Marta odia Arianna – madre che odia figlia, e non diciamo come – ma è solo una delle tante forme di odio.

Qui tutti hanno o cercano qualcuno da odiare, qualcuno da uccidere, qualcuno da amare.

“…eapers and vultures
Demons
stand up
and chime the bell

Raise the dead”

Dove si muovono, parlano e pensano i personaggi?

C’è una casa, una famiglia – per tutti casa e famiglia = rifugio, cura, protezione.

Qui casa, qui famiglia = abuso, sopruso, violenza, omicidio, canna della pistola in gola, sparo, bestia, bara.

C’è un capanno abbandonato, topi morti, wurstel scadenti e mele, spazzatura, un coltello, sangue, polvere, escrementi: il luogo meno sicuro diventa rifugio, luogo dove il gioco, la tenerezza, la cura tra due esseri umani – che non sono famiglia eppure per un attimo lo sono – sono ancora possibili.

Quali esseri umani? Veli e Nicole, guardiano in gabbia e prigioniera.

Dentro il capanno si sta al sicuro, almeno finchè le due linee narrative, quella dentro e quella fuori, si intrecciano: la bestia irrompe.

“A crack of thunder, a smell of death
the wind of mayhem blows
Heaven in its final breath
and God lose all control

Prayers for mercy cries for help
won’t stop the blasphemy
Our troops emerge the sacred throne
and the victory is complete”

Perché ho scritto?

Per liberarmi di questi personaggi e di queste voci che mi si appiccicano addosso come bava di topo, un topo che ha qualcosa che sa di tenerezza.

No, meglio, di delicatezza.

Michele, ragazzo poeta che vola come Birdman dal settimo piano, vola ma non si è mai schiantato: continua a volare.

Scrivo perché questo libro ha conquistato un lettore per niente facile (uno che non leggeva da tempo).

Perché? Gli chiedo. Per il ritmo, dice: è come un rif di chitarra.

Io sono una lettrice, non conto; ma se un musicista dice che in questo libro si sente il suono delle parole significa che è vero. E questa volta, su questo libro, siamo tutti d’accordo. Abbiamo tutti ragione. È una cosa bellissima: avere ragione, intendo. Significa che questo libro è arrivato dove doveva arrivare. A tutti.

Scrivo pensando alle voci di Faulkner in Mentre morivo.

Scrivo pensando a come questo romanzo sia stato scritto: per essere divorato, fagocitato, ingurgitato come una puntata di Black Mirror, tutto e subito, forgiato nel ritmo sincopato dei nostri giorni, in quella danza indiavolata che è il nostro fruire i prodotti seriali, l’arte, la vita.

Un ritmo spezzato, ossessivo, fatto di personaggi creati per esistere fuori dalla pagina. Come lui

Michele Trevi.

Andrea Donaera padroneggia i dialoghi, e il loro alternarsi con i monologhi interiori, in modo straordinario. Non ho mai letto uno scrittore contemporaneo che sappia farlo con tanta leggerezza.

Penso che Andrea volesse che ricordassimo che questo libro è nato per la scena, per il teatro: non c’è pericolo che ce ne dimentichiamo.

Anche Andrea, come Michele, ha deciso di esistere dentro e fuori/oltre la pagina e sembra dirci, come scrittore: la scrittura deve tener conto dei tic interiori dell’epoca frantumata che stiamo vivendo e un libro, se “pretende” di essere letto oggi, deve trasformare questi tic in segno grafico sulla pagina e portare dentro il libro le forme di narrazione che libro non sono.

Andrea è scrittore-mente pensante-aggregatore culturale: lo seguo da qualche tempo, sento che parla un linguaggio che molti che non scrivono possono capire per poi arrivare ad altro. Andrea dice “ca**” e ride (ho provato a contare le volte in cui dice “ca***” e ride nel suo meraviglioso podcast ‘Ntrame, ho perso il conto) e non lo fa per posa, per fare il giovane o per sentirsi giovane, per strizzare l’occhio a qualcuno: parla come pensa, traduce dal dialetto (dice) e intanto cita Gospodinov e Amelia Rosselli con disinvoltura.

È uno che sa perché scrive e cosa significa scrivere in termini di perseveranza e dedizione ma è anche, lungi dagli stereotipi dello scrittore elitario, uno che non ha rinunciato a dialogare con le ferite-persone del presente e dar loro dignità nei libri.

La morte è disseminata ovunque nel suo libro: morte fisica, violenta, morte veloce o lenta, inesorabile, morte che genera vita e genera storia.

La morte fa scrivere. L’arte nasce dalla paura della morte e nasce per sfidare la morte, giocarci al biliardino (non a scacchi, troppo intellettuale).

“Io sono la bestia” è una discesa agli inferi ineluttabile, senza risalita, senza morale e consolazione finale (ché in letteratura morale e consolazione sono la cosa peggiore).

Andrea Donaera infila dentro la sua storia i mostri che percepiamo come vicini, possibili, umani troppo umani proprio perché ce ne mostra le crepe e le incrinature.

La bestia sono io, la bestia sei tu. Se tu vuoi sopravvivere devi essere più bestia della bestia.

Alla fine del libro tutto ricomincia dal punto in cui era iniziato. Come ho scritto per il romanzo di Monica Pezzella, Binari. L’inizio dalla e nella fine.

Senza finire.


“…e in tutte le piazze ti vedo, e spero,
di smetterla coi sogni
di te stesa bocconi
uguale a me: che ti amo
perché non amo me,
ma io non ho che me.”

Il libro del quale non ho fatto la recensione è “Io sono la bestia” di Andrea Donaera, NNE Editore

Brani musicali citati (in inglese):

Bathory, War; Bathory, Raise the dead

Frammenti citati (in italiano):

Michele Trevi – Quaderno d’addio
20 poesie alla Bella N.

Immagine di copertina: Poster dei Bathory (citato nel libro di Andrea Donaera)

Drieu La Rochelle, un uomo spezzato

Negli anni ho imparato che l’affetto è forma mutevole, e inaffidabile, della relazione. Stima e ammirazione ci sono concessi da amici (e nemici) per le nostre qualità concrete, visibili, riconoscibili e riconosciute.

Ammirazione, recita la Treccani, è quel “sentimento di attrazione che si prova verso cose straordinariamente belle e pregevoli, o di stima, rispetto, simpatia per qualità singolari di una persona”.

C’è in quel “ad- mirari”, in quel “guardare con stupore”, un potenziale di ineluttabilità esploso in espressioni quali “cose straordinariamente belle e pregevoli” e “qualità singolari”.

Negli ultimi anni ho iniziato ad apprezzare il tributo di stima più del “ti voglio bene” gettato alla rinfusa: l’amore incostante, mutevole, falsificato dall’immagine simulacrale che, il più delle volte, ci si forgia dell’Altro. Spesso si ama con il ventre e senza testa, perdendo la testa, sbattendola sul muro, fracassandosi il cranio. Il più delle volte prendendo un abbaglio su quel che significa “amore”.

Dopo aver letto i suoi libri e la sua biografia mi sono chiesta come mi sarei comportata, e cosa avrei provato, se avessi conosciuto l’uomo che risponde al nome di Drieu La Rochelle.

Scrittore e saggista francese, nato a Parigi nel 1893, La Rochelle ha forgiato una prosa di impareggiabile valore.

Il suo “Diario” contiene alcune delle pagine stilisticamente più belle che la letteratura francese possa vantare e che sono però, spesso, intrise di risentimento verso l’Altro in quella forma deplorevole che abbiamo imparato a conoscere come antisemitismo. Odio verso l’Altro che era forse lo specchio dell’odio che l’uomo Drieu provava verso se stesso. La Rochelle aderì ai programmi reazionari di destra e fu un collaborazionista convinto durante l’occupazione tedesca della Francia; in seguito fu accusato di collaborazionismo e nel 1945 si tolse la vita.

Non so se io e Drieu – sapendo ciò che so di lui, essendo quella che sono – saremmo mai diventati amici ma quello che so – essendo quella che sono – è che non avrei rinunciato a leggere le sue opere.

So di inserire questa riflessione in un dibattito difficile e insolubile, quello sulla possibilità (o impossibilità) di distinguere l’uomo dall’artista. Per me è essenziale provare a fermarsi, e riflettere, su ciò che definiamo letteratura e ciò che letteratura non è.

Distinguere tra ciò che arte e letteratura possono in fatto di sconfinamento rispetto alla morale e ciò che, per esempio, il giornalismo (forma cronachistica non finzionale di scrittura), per esempio, è chiamato a fare.

Credo che la letteratura non dovrebbe ergersi a giudice, né dovrebbe sancire ciò che è giusto o sbagliato; la letteratura può prendersi la libertà di parlarci di violenti e assassini portandoci persino a simpatizzare con loro (come il cinema, le serie tv, e qualsiasia altra opera): può farlo perché non è “favola”, non è Esopo che deve ammaestrarci, e non è cronaca del reale nè giornalismo d’inchiesta nè denuncia sociale.

La letteratura è più simile ad una Maga dai dubbi costumi che opera in modi sorprendenti per aprire orizzonti inattesi; può persino risultare fuori luogo nei modi, fuori dagli schemi nei contenuti, e scagliare incantesimi contrari al buon senso o alla morale. La letteratura deve essere prima di tutto “buona letteratura”, cioè ben scritta: non infarcita di parole stantie o morali consolatorie, non veicolo di soluzioni, definizioni, precetti e insegnamenti.

Forse uno come La Rochelle si sarebbe accanito contro tutti i “deviati”, come li avrebbe definiti: lui ed io avremmo battagliato come esseri umani e, per via delle nostre convinzioni personali, ci saremmo persino odiati; eppure la mia opinione personale sarebbe stata, invariabilmente, che Memorie di Dirk Raspe” è uno dei libri migliori che abbia mai letto, oltre che il miglior romanzo sulla vita di Van Gogh che potrete mai leggere.

Subito dopo averlo scritto, Drieu si uccise. A uccidersi fu un uomo che odiava se stesso con ferocia pari, se non maggiore, a quella riservata agli altri.

Fuoco fatuo” è un altro romanzo capolavoro: uno scrittore fallito, un drogato, un dandy caduto in misera che passa un’intera giornata a camminare per le vie di una città desolata cercando una ragione per vivere, sapendo che, al fondo di quell’errabondaggio, non ne troverà. Il breve romanzo trasse ispirazione dal suicidio dello scrittore surrealista Jacques Rigaut, amico di Drieu. C’è molto di Drieu in Rigaut e c’è molto di Drieu anche nel Van Gogh romanzato del “Dirk Raspe”.

Drieu costruisce, con una prosa semplice che tocca vette altissime, personaggi densi e tesi fino a consumare la pelle delle parole, e spesso lo fa a partire da persone reali alle quali si sente affine per tentazione all’abisso e alla disperazione.

È un uomo rotto dentro, Drieu. Però – direte voi – è uno di quelli che, nella vita reale, non potremmo mai amare, non potremmo mai comprendere perché ha agito male, in un modo che giudichiamo moralmente deprecabile.

E sì, sono d’accordo: il fatto di uccidersi non santifica nessuno. Eppure quest’uomo, anche se ha agito male, è proprio come me, e anche come voi. Forse, quello che ci infastidisce è che questo intellettuale che si macchiò di antisemitismo ci sbatta in faccia il suo essere rotto dentro con quel gesto definitivo e plateale mentre noi, brave persone, continuiamo a vivere e lottare senza lamentarci. Questo è coraggio, direte: il nostro vivere e lottare, essere eroi del quotidiano. Eppure ci vuole coraggio, io credo, lucidità e non follia ma soprattutto coraggio, per togliersi la vita essendo quel qualcuno che ci ha già provato, quel qualcuno che sul suicidio ha riflettutto, rimuginato per tutta la vita. E ne ha scritto per tutta la vita.

“Ebbene, ora l’ho capito, la solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il mondo e per la vita; è il solo modo per gustare fino in fondo un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da noi, e le donne; ma è la china lungo la quale ci si perde” (Racconto segreto)

Drieu pensò di scrivere “Dirk Raspe” prima di tentare di uccidersi ma l’idea del suicidio dimorava da sempre nella sua mente. Come per altri scrittori della sua generazioneBreton e Malrauxl’Arte fu sempre un tema essenziale nelle sue opere: scrisse appassionatamente di Van Gogh, dalla cui vita fu sempre affascinato, e lo fece in totale solitudine, barricandosi in una casa sperduta nelle campagne di Parigi. Scrisse di getto, senza revisionare il testo. Un testo in cui ogni parola è pensata, pesata e posizionata con maestria.

“Gli specchi (…) sono fatti per coloro che vedono senza guardare e che, se guardano, vedono l’invisibile insieme al visibile; sono fatti per gli inquieti, i curiosi, gli affamati di domande e di conoscenza; sono fatti per gli artigiani della vista e del tatto, come me (…); per chi si stupisce, per i timidi, i modesti, gli umili; (…)per coloro che vivono intensamente in se stessi e dietro se stessi e che possono guardarsi da una profondità che non è più l’io vano, effimero e che sono in grado di guardarsi con un distacco e un’oggettività tali da confondere il loro viso con tutti i visi che lo specchio potrebbe riflettere, trasfigurati e fusi in un solo viso, quello dell’Uomo. E l’uomo considera il dio che risiede nell’Uomo. A quell’epoca, smisi di guardare così lungamente, così profondamente, non volevo arrivare al punto in cui l’Uomo e il dio e Dio si annullano e svaniscono nell’indecifrabile, nell’inconcepibile, nell’indicibile”.

E invece Drieu guardò, tocco quel punto, non torno indietro. Forse non era mai stato davvero a suo agio nel mondo.

La schiena china sul “Diario”, annotava riguardo al “Dirk Raspe”:

“scrivo da quattro a otto pagine consecutive senza sforzi, senza mai rileggere quel che precede. Scrivo tutto il romanzo senza preoccuparmi del lavoro già fatto:in tal modo posso esprimere il brancolamento dell’esistenza”.

Alternava momenti di euforia e lavoro indefesso ad altri di invincibile scoramento

“Ne ho abbastanza di quel nuovo romanzo (…), abbastanza del mondo. Non riesco più a interessarmi veramente alle ‘cose’ (…) Non ho fatto alcun progresso nella concentrazione. (…) E poi io non sono un uomo di concentrazione.

Due mesi dopo, nel marzo del ‘45, si uccise. Il primo tentativo di suicidio risaliva all’agosto del ’44. In quel tempo di mezzo Drieu scrisse, lasciandoci in eredità qualcosa di prezioso, e unico, nel panorama letterario.

Se preferirei che avesse avuto idee diverse da quelle che aveva? Che fosse stato un uomo diverso?

”La gente si contraddice (…); ti scongiura di essere te stesso e subito ti rimprovera di esserlo troppo”.

Non oserei chiedere nulla di simile a un essere umano, nè saprei rimproverare Drieu per ciò che non fu in grado di essere.

Cosa sappiamo veramente dei tormenti di quest’uomo che amava camminare molto, un camminatore seriale, e restare solo. Quest’uomo timido con le donne e ossessionato dal pensiero dei corpi, che si riteneva brutto e che perciò stesso scelse di diventare brutto, di abbrutirsi per giustificare il proprio ritiro dalle scene del mondo. Quest’uomo che correva dietro alle puttane e non riusciva ad avere relazioni “normali” (qualunque cosa significhi) con donne comuni e che prima di morire dialogava quasi solo con i poeti morti – Coleridge, Keats, Shelley, Holderlin, Baudelaire?

Chi avrebbe potuto salvarlo da se stesso, quest’uomo imbevuto di idee reazionarie, letteratura, poesia, immagini distorte di sè stesso e del reale, quest’uomo che – come scrive nel suo diario due giorni prima di ucciddersi – era ossessionato dall’idea di completare ciò che aveva iniziato?

Ammazzarsi è esercitare su di sé il diritto di vita e morte

e Drieu era ossessionato dall’idea di autodeterminarsi e affermarsi come volontà e dio pantocratore.

Se un uomo è tale nella misura in cui è fallibile, nella misura in cui è dannato, caduto, allora anche quest’uomo, che non è degno del nostro amore, è un uomo. Certamente è uno scrittore straordinario.

Penso che se lo avessi conosciuto, Drieu, sarei stata sedotta dal suo genio, avrei amato la sua mente, la sua scrittura, il suo modo di forgiare mondi impossibili con le parole, di far vibrare in modo straordinario le cose ordinarie; forse mi sarei detta che amavo l’uomo e sarebbe stato falso, sarebbe stato un fraintendimento, un abbaglio. Ma lo avrei capito in seguito perché è così che accade con l’amore.

Perciò al mutevole affetto per gli esseri umani preferisco la stima durevole, l’ammirazione.

Grazie ai libri di La Rochelle la mia mente si apre ad orizzonti inattesi, comprendo e abbraccio l’umano tutto nella sua imperfezione.

Ci sono esseri umani che sono abbaglio e fraintendimento persino per se stessi e quel bagliore li seduce, sono sedotti da se stessi al punto di morirne.

Il loro bagliore è puro ed eterno solo nelle opere. Forse non sono stati buoni e puri – né con gli altri nè, qualche volta, con se stessi – ma hanno fatto qualcosa di buono, ci hanno lasciato qualcosa che ha valore e che possiamo giudicare tale perché amplia e arricchisce il mondo in cui viviamo.

Diamo atto all’uomo fallibile, foss’anche il più fallibile tra gli uomini, per esser stato impeccabile nell’arte che scelse – o dalla quale fu scelto – e nella quale espresse la parte migliore, e buona, di sé.

Dobbiamo riconoscere che ha pagato un prezzo altissimo.

“Le memorie di Dirk Raspe” è un’opera incompiuta, scritta a ridosso dell’abisso: la tipica opera giudicata “imperfetta” dal mercato editoriale. Eppure, come accade non di rado, questo “non finito” è la cosa più perfetta, più compiuta che La Rochelle abbia scritto. Ed è una fortuna che sia rimasta, incompiuta e perfetta, nonostante l’uomo.

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Lo scrittore è un giullare che cade a pezzi. “Le Parole dei Libri” inizia dai cocci di Binari, Brama, Blu

Lo scrittore è un giullare e chiede al Mondo: “diteci, vostra maestà, cosa dovremmo raccontare?”

In uno spazio-tempo slabbrato, che si frantuma, dove gli umani sono cocci, c’è ancora qualcuno che critica i libri che parlano di individui e mondi interiori – dateci le grandi imprese, dateci le grandi persone! – libri che pongono al centro della “storia” – ed è già sorprendente riuscire a imbastire sopra i cocci una “storia” con tanto di fine-svolgimento-inizio (no, scusate, al contrario) – l’intimità, le emozioni, il volto allo specchio.

Cioran li chiama “monadi impazzite”, questi individui che cadono a pezzi.

Come se ancora servisse ricordare che da Svevo e Pirandello in poi tutto è cambiato – all’incirca, non sono poi così sicura, non sono sicura di nulla di quello che dico, correggetemi se sbaglio – e per sempre. Può andare peggio, pensavamo. Ed è esattamente così che è andata.

Nella letteratura, oggi più di ieri, è l’individuo che conta, il modo in cui filtra il reale attraverso gli occhi gonfi di lacrime, le ferite e la propria storia personale.

Io amo i libri di carta ma spesso mi ritrovo a dover constatare che il racconto del nostro tempo non lo fanno i grandi romanzi ma gli adolescenti da milioni di followers su youtube: alcuni di loro – non tutti, per carità, non tutti, non datemi addosso (ehi, sono sempre quella che ama i libri di carta!) – parlano meglio di chiunque altro, attraverso la musica o le arti performative, di temi brucianti come il bullismo o l’identità di genere. E sì, parlano alla loro generazione ma è a me, alla mia generazione, agli adulti in generale, che hanno qualcosa da insegnare. Se volete capire di cosa parlo, guardate un video di Madame, la canzone “Voce” (non è il mio genere – sono una da Cure, Smiths, Queen, Black Sabbath, musicalmente sono ferma agli ’80-’90 – e non ho visto Sanremo: non posso farcela, è troppo anche per me che sono di larghe vedute, perciò ringrazio un’amica per la segnalazione).

La sola cosa che gli scrittori possono (e devono) fare meglio degli youtubbers (si scrive così? Scusate ma non sono una iutubber), in un tempo frantumato di umani che cadono a pezzi, è parlare di questi cocci, delle pulsioni sordide e inconfessabili che si agitano in ciascuno di noi – dentro, in fondo, nel buio, dove non si vede – e farlo con un feroce labor limae sul ritmo delle frasi e sulla scelta delle parole: che siano parole cercate, volute, scartate e ripescate. “Esiste una sola parola adatta per ciò che voglio dire”, dice Annie Ernaux in un’intervista al Corriere. Scegliere le parole, il ritmo giusto della frase, raccontare il “reale individuale”, le piccole storie di falliti e sognatori erranti, le relazioni tra esseri minimi che si percepiscono come insignificanti, ininfluenti nella Storia (e lo siamo, e lo abbiamo accettato, forse, dopo quest’anno) e farlo attraverso un filtro che amo definire “balzo oltre il reale” (questo esercizio di finzione, io credo, insieme alla scelta delle parole, è ciò che innalza al livello di arte la narrazione): il fantastico, il sogno e l’incubo, il surreale che accade, come quando guardi i rami di un albero e all’improvviso il tronco apre la bocca e ti fa entrare, o cadono i fiori arancioni dalla carta da parati e tu li afferri e li divori e sanno di cioccolato fondente o la nuvola mette i piedi per terra e comincia a rotolare e tu ci finisci dentro e sei nella tana del bianconiglio dove la regina digrigna i denti e ti morde il collo. Cose del genere. Ma va bene anche altro, anche cose migliori (erano le prime che mi venivano in mente, scusate). Ma che abbiano la forza dell’incubo, delle cose realmente inesistite, impossibili, che sfuggono al controllo degli esseri umani miseri e senza potere che siamo. Impossibili perciò necessarie.

La sola consolazione è che né le pandemie né il carcere forzato potrebbero togliere all’essere umano la capacità di immaginare. Quindi ogni scrittore che voglia dirsi umano e voglia parlare ai suoi sodali non dovrebbe mai smettere di fare la fatica che i suoi simili non fanno fino in fondo: guardarsi dentro, sprofondare e poi risalire con le lordure, uscire nel mondo e trasformare attraverso l’immaginazione. Capisco la difficoltà ma è un dovere “sociale”: nessuno chiede a nessuno di scrivere. Potresti benissimo fare l’allenatore di calcio della nazionale (potresti, giuro che potresti!) o la ballerina di burlesque (se avessi il corpo giusto, è quello che farei. Un sogno segreto. Ma non ce l’ho, il corpo giusto, perciò mi chiudo in camera e scrivo). La cosa più difficile potrebbe essere farlo nel quotidiano. Allora darsi una regola, una disciplina: una cosa tipo “immaginare/sognare per venti minuti, tre volte al giorno”. Guardare un film di Lynch o la sua intervista a una scimmia. Leggere un fumetto di Dylan Dog. Cose così. Guardare e forzare il reale ad essere altro da sé.

Gli adolescenti non stanno bene ma sono migliori degli adulti e hanno qualcosa da insegnare agli scrittori quando trovano un modo alternativo, fuori dagli schemi, per gridare il loro dolore e comunicare, condividere delle emozioni. Lo scrittore migliore, per me, è un bambino e insieme un adolescente che porta addosso il peso e la consapevolezza dei suoi cento anni. Non ha mai l’età che dichiara di avere – non guardate le biografie degli scrittori prima di leggerli, non fate loro questo torto: leggete le loro parole! – e sa troppe cose, pensa troppo, ne ha viste troppe (spesso solo nella propria mente) cose che voi umani – l’orrore! L’orrore! L’orrore! – e quindi le può raccontare. Le deve raccontare. Quantomeno per liberarsene.

È così che, senza la pretesa di influire sulla Storia, influisce sulla vita di una persona, una o due al massimo magari, specie se non è famoso e non è pubblicato da colossi del mercato editoriale. Ma è grazie a questo dono che ha cambiato la storia, e la vita, di uno o due persone (dai, facciamo che siano tre, dieci, cento, mille…aiutiamo gli scrittori che se lo meritano, ricordando che la maggior parte di loro non ha le doti comunicative di uno iutubber).

Ho inaugurato per il progetto La Lupa l’iniziativa Le Parole dei Libri proprio con questo scopo: raccontare in maniera istintiva e labirintica (diversamente non so fare, e credo questo articolo ne sia la dimostrazione) i libri degli scrittori del mio tempo che, con le loro parole, hanno influito come forse mai avrebbero immaginato sulla mia storia personale. E raccontare le loro pagine attraversando le parole che ritornano ossessivamente nella loro Voce.

Anche per dire loro Grazie. Nessuno dice Grazie a chi scrive mentre scrive. Bisogna dire loro Grazie non tanto per i libri che hanno già scritto ma per quelli che stanno scrivendo in questo momento. Sperando che continuino a scrivere. Perché trovare una Voce, ad ogni livello (non solo nella scrittura) è uno degli obiettivi più difficili da raggiungere nella vita di un essere umano. E il fatto che loro ci siano riusciti proprio mentre cadevano a pezzi, come tutti noi, è una dimostrazione di coraggio che fa ben sperare. I loro libri sfondano spesso il muro del reale, non sono mai banali e sono scritti bene, con rigore e amore per le parole.

Il primo appuntamento dell’iniziativa è stato una diretta sgangherata dedicata a tre scrittrici Monica Pezzella, Ilaria Palomba, Giorgia Tribuiani. I libri: Binari, Terrarossa edizioni; Brama, Giulio Perrone Editore; Blu, Fazi Editore.

Perlopiù improvviso. Spero di migliorare col tempo. Ma sono felice di aver iniziato con queste tre Voci straordinarie. Sapevo che la forza dei loro Libri avrebbe compensato la mia inettitudine ai social.

Le recensioni e le interviste ai libri le trovate online. Qui ne linko tre per chi volesse approfondire:

Monica Pezzella, Binari

Ilaria Palomba, Brama

Giorgia Tribuiani, Blu

P.S. Quasi sempre dico “scrittore” come direi “poeta”, quando non mi riferisco a persone specifiche.

Chi mi conosce sa perché non sento il bisogno di specificare. Ci siamo intesi. Gli altri possono sempre chiedere o leggere qui.

Perché abbiamo ancora bisogno degli Amori difficili

L’avventura è sempre un viaggio, fisico o mentale, verso l’oggetto del desiderio.

Avventura è un avvenimento straordinario, un’impresa singolare.

Avventura è anche quella relazione amorosa nella quale non ti vuoi impegnare.

Per non parlare poi della radice etimologica, ad-ventura: “le cose che accadranno”.

Con la parola avventura e i suoi molti significati Calvino si diletta a giocare.

Acciuffa dalla vita un dettaglio banale e lo tira e lo tende fino a renderlo paradossale.

I titoli dei racconti della raccolta Gli amori difficili sono potentemente ironici in relazione al contenuto: vite semplici e routinarie nelle quali i veri protagonisti sono non tanto i personaggi ma i loro movimenti e le loro rivoluzioni interiori.

La storia di ciascuno èla storia d’uno stato d’animo, un itinerario verso il silenzio”.

Generalizzando, potremmo dire che l’avventura è il modo in cui le cose ci cadono addosso. E questa definizione veste meravigliosamente bene su qualunque personaggio de Gli amori difficili. E su di noi.

Perché la vita è davvero quella cosa che ti cade addosso mentre non te ne accorgi, anche quando resti (apparentemente) immobile nel grigiore di una nuvola di smog o in quella stanza da un anno di pandemia sempre identica a se stessa.

Ho trovato un dialogo sottile tra la parola e la fotografia che rende bene l’idea.

Calvino aveva letto Roland Barthes e il suo libro sulla fotografia La camera chiara.

Ecco cosa scrive Barthes aprendo una nuova possibilità alla parola avventura

mi pareva così che la parola più giusta per designare (provvisoriamente) l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura.  La tale foto mi avviene, la talaltra no. Il principio di avventura mi permette di far esistere la Fotografia […]. In questo deprimente deserto, tutt’a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata (io non credo alle foto «vive»), però essa mi anima, e questo è appunto ciò che fa ogni avventura.

Nel grigiore della vita quotidiana cercare ciò che, accadendo dentro ancor prima che fuori di noi, ci anima: eccola, la vera rivoluzione.

L’ironia è la cifra stilistica con cui Calvino rende godibile ogni parola donandole un colore, un umore: la descrizione delle debolezze e delle incongruenze umane è intensa ma priva di giudizio o inutili patetismi. Calvino sa che per scendere in profondità non serve drammatizzare, anche se il dramma è ineluttabile quando si indaga l’atro fondo dell’animo umano.

Diciamo pure che Calvino lascia affiorare il dramma naturalmente, con garbo e (apparente) leggerezza.

In realtà, mentre ci fa sorridere ci dà la stilettata: in molte storie riusciamo a vedere noi stessi, le nostre tare e le nostre idiosincrasie. Ce ne stiamo seduti a leggere, prendiamo le distanze da queste figurine sottili che si agitano, talvolta ridicolmente, sulla pagina eppure non riusciamo mai a restare davvero indifferenti, anche quando ci sembrano assurde e patetiche. Anzi, soprattutto in quel caso. Le loro sconfitte e le loro fragili gioie sono le nostre, sorridiamo delle loro stranezze ma la loro nudità li avvicina a noi.

Ricordate il meraviglioso saggio di Pirandello sull’umorismo? L’esempio della vecchia imbellettata che suscita il riso e immediatamente dopo fa riflettere e immalinconisce?

La risata e il dolore. Il potere della contraddizione insito in ogni pagina che, mentre la si legge, si fa subito vita.

DUNQUE, PERCHE’ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DEGLI “AMORI DIFFICILI”?

Uno dei molti talenti di Calvino è la capacità di elevare cose semplici al livello di simbolo, Trasfigurarle, animarle: letteralmente, dotarle di anima.

La sua attitudine a strappare il quotidiano dalla banalità e immergerlo nella dimensione della favola – fin dal titolo programmatico, accadimenti comuni che diventano avventure – è una medicina potentissima in tempi che ci obbligano alla fissità di una routine ristretta in spazi e gesti minimi.

Il movimento e la rivoluzione interiore, e aggiungerei un pizzico di fantasia, sono la risorsa migliore che abbiamo.

E poi il corpo, e il perimetro più prossimo intorno ad esso, che rappresenta il primo vero “spazio” col quale ci relazioniamo, quello che diamo sovente per scontato. La nostra ansia di essere sempre in qualche luogo fuori di noi dimenticando la nostra verità prima fatta della nostra carne, del nostro respiro. Questo concetto ci riguarda ed è anche il punto fermo da cui muove ogni racconto di Calvino che, sullo sfondo da cartolina di uno spazio urbano o naturale, indaga prima di tutto la relazione del singolo personaggio con il proprio corpo e con il corpo dell’Altro: lo spazio tra “me” e “te”, per quanto minimo, è forse il secondo luogo più interessante da indagare. Di cosa è fatto questo terzo includente che tutto include?

L’assenza, il silenzio, l’attesa, il “correre verso” che è l’essenza stessa dell’amore, e poi un sentimento di incomunicabilità che racconta da vicino la nostra quotidianità. La nostra comunicazione eccessiva, sovrabbondante per via della miriade di mezzi a disposizione, è diventata, paradossalmente e proprio per questo, difficile. Ecco un’altra parola chiave per Calvino, e per noi. Calvino gioca sempre e comunque con gli universali: sa bene che i problemi e le questioni essenziali per ogni essere umano sono da sempre e per sempre le medesime. E anche la difficoltà (come il corpo e la comunicazione) è un tema eternamente familiare, soprattutto in un mondo fatto di iper-comunicazione: il troppo rumore diventa suono indistinto e assenza di senso, una chiazza di voci nella quale sembra impossibile non tanto dire qualcosa quanto dialogarla, capirsi e incontrarsi.

Appendice. Un sognatore con i piedi fortemente radicati sulle nuvole

Quella di Calvino – il poeta, il favolista, il cantastorie di città invisibili e visconti dimezzati – fu una vita piena d’azione. Sperimentò la fuga, la galera, il pericolo di morte. Renitente alla leva della Repubblica di Salò, dopo l’8 settembre dovette nascondersi: immerso nella solitudine a vent’anni, durante la reclusione forzata ne approfittò per leggere moltissimo; per sua stessa ammissione fu questo di letture instancabili un periodo essenziale nella sua vita di scrittore.

Non disdegnò l’impegno politico attivo e ribadì sempre l’importanza delle condizioni materiali nella sua vita di letterato e scrittore. Figlio di scienziati divenne poeta senza dimenticare mai il gusto per il dettaglio concreto e per la natura che fu sempre materia prediletta per la creazione artistica.

Contaminazioni

Calvino divorava la vita e l’arte in tutte le sue forme con pari fervore.

Ci fu un periodo della sua vita, da adolescente, in cui andava al cinema due volte al giorno.

Fra il 1968 e il 1972 progettò una rivista che non riuscì mai a realizzare, una sorta di Linus ma senza fumetti: la immaginava come una rivista di romanzi a puntate con illustrazioni, insieme a rubriche specifiche sulle tecniche della narrazione.

Scrisse testi per canzoni e per il teatro e molti dei suoi racconti furono d’ispirazione per il teatro e il cinema.

Per la serie radiofonica della Rai Le interviste impossibili scrisse i dialoghi Montezuma e L’uomo di Neanderthal. Il programma della Rai andò in onda dal 1973 al 1975: protagonisti della cultura contemporanea reali fingevano di trovarsi a intervistare fantasmi redivivi di persone appartenenti a un’altra epoca.

Un frammento nel quale Italo Calvino incontra Montezuma (la voce è di Carmelo Bene)

In copertina: MC, Un amore (acrilico su tela)