Unbound_la Venere interrotta

Insieme alle tre donne spezzate della mia famiglia – Madre, Nonna, Prozia – ci sono almeno altre due figure di Donna che giganteggiano nella mia vita, se pur per ragioni diverse.

La loro forza è nelle Parole: quelle che, leggendole senza nulla sapere del volto che celano, ti rivelano a te stessa. Se ne fregano del tuo nome, di chi sei o sei stato, da dove vieni.

Le parole sono quelle di Simone De Beauvoir e Anais Nin.

C’è una questione che mi assedia da anni – e che so di non essere la sola a porre – relativa al parallelo tra queste due scrittrici.

Sintetizzando in una domanda: quali sono le ragioni che hanno condotto l’una nell’empireo dell’indiscussa gloria letteraria e mantenuto l’altra nell’ombra, come figura di secondo piano?

L’accostamento muove da ragioni di natura personale ed emotiva, dicevo, ma ha un valore anche sul piano generale: come emerge dalle date – Anais Nin (1903-1977), Simone De Beauvoir (1908-1986) – le due autrici sono coeve.

Non è certo il luogo in cui esaurire la questione ma trovo utile mettere nero su bianco qualche suggestione – labirintica, senza nessuna pretesa se non quella di lanciare un sasso per sentire come rotola, si schianta o fa rumore – sperando di fare un dono specialmente a chi non conosce la figura di Anais.

Ho sempre pensato che per la carica esplosiva a livello sensuale e sessuale, per l’essere così presente in carne e corpo in ogni cosa, oltre che per la dedizione quasi totalizzante alla vita intima, interiore e onirica, la Scrittura di Anais Nin sia stata – prima e dopo la morte – fortemente penalizzata.

Nei suoi Diari, Anais fa continuo riferimento ai dialoghi con Otto Rank, figura di spicco della filosofia e della psicanalisi del tempo, impegnato a mescolare tale disciplina allo studio di ambiti quali leggenda, mito, letteratura, arte (consiglio la lettura della sua opera “Il doppio”, edizione SE).

In molte pagine, Anais ci racconta sia dell’attività di modella al soldo di pittori sia di un certo tipo di letteratura erotica su commissione che dovette piegarsi a scrivere non di rado.

A differenza di Simone, Anais soffrì molti momenti di grave ristrettezza economica, oltre ad essere tormentata dall’indifferenza, quando non ostilità, della critica letteraria, e dovette lavorare su più fronti per difendere la propria scrittura, non ultimo quello materiale.

Non di rado gli editori rispondevano lodando la sua scrittura come “insolita” o “meravigliosa”, sottolineandone l’innegabile qualità letteraria e, al contempo, lamentando la difficoltà, se non impossibilità, di piazzare l’opera di Anais sul mercato (nel Diario V sono riportate alcune di queste risposte).

Come se non bastasse, Anais era una donna oltremodo generosa nel donarsi e nel donare denaro a chi le chiedeva aiuto, inclusi scrittori o artisti (spesso di sesso maschile) che magari avevano o avrebbero avuto più successo di lei. Sono convinta, come del resto emerge leggendo i Diari, che la sua sensibilità, le sue inquietudini interiori e le sue fragilità da questo punto di vista l’abbiano penalizzata (come invece, da altri punti di vista, l’hanno resa la Voce unica che è).

Simone, come ci lascia intendere in Memorie d’una ragazza per bene (primo capitolo della vasta autobiografia) è stata una bambina molto amata e, in qualche misura, “viziata” (possiamo dirlo senza offenderla? Penso proprio di sì).

Inoltre, cresciuta in una famiglia borghese, cattolica e tradizionalista, in qualche misura non si è mai liberata di quel pudore di fondo ed è con grande cautela che ci parla sempre del corpo e del sesso. Nonostante abbia dedicato a temi simili un libro voluminoso dal titolo esemplificativo “Il secondo sesso” (che divenne presto punto di riferimento essenziale per gli studi sulla questione femminile) la mia percezione personale è che abbia toccato il tema, per così dire, “con le pinze”, restando a debita distanza “fisica” dalla questione. Questo non vuol essere un giudizio di merito: trattare il corpo e la sessualità lo si può fare in molti modi e quello da lei scelto è il saggio, una forma più “didattica”, per così dire.

Ma, in che senso restando a debita distanza “fisica” dalla questione?

Nella vita e nella scrittura di Anais la potenza sensuale e sessuale è ovunque nel corpo e nel suono, come nel segno e nel senso delle parole. Per dirla altrimenti, laddove con Simone comprendo la realtà per via intellettuale, con Anais sono obbligata a lasciarmi attraversare: ho voglia di avere un rapporto quasi fisico con le parole, leccarle, strapparle dalla pagina, danzarci sopra, sotto, dentro.

Dipingermele addosso. Farmi penetrare.

Le parole di Simone, in un certo senso, entrano nella testa, scivolano lungo la spina dorsale e poi giungono al cuore: le comprendo e le sento per via di ragione e delicata vibrazione.

Quelle di Anais penetrano attraverso la bocca, la saliva le porta direttamente al ventre e al sesso e poi le fa schizzare alla testa, dove restano per farsi senso, sedimentare ed essere rielaborate: sento l’altrove pulsare dentro le vene e comprendo la gioia del reale nel modo selvaggio in cui un amplesso potrebbe insegnarmelo.

Quello che, mente scrivo, sto immaginando, è che una vita vissuta in maniera tanto vorace, unita al fatto di dire liberamente – per come lei desiderava dirlo – “poso nuda”, “sono una modella” e, al contempo, “sono una scrittrice”, facesse storcere il naso.

Allora come oggi, forse. Anzi, senza forse.

Come se quest’uso del corpo libero da lacci e lacciuoli sminuisse o addirittura annullasse il suo valore come “scrittrice”.

Come se una donna dovesse fare una scelta di campo tra questi due mondi.

Dico una mia sensazione.

Non contesto il valore di De Beauvoir ma credo sinceramente che si sia fatto un torto ad Anais lasciandola in secondo piano.

Bisogna aver messo in dialogo le loro opere, per penetrare questa sensazione.

Se penso al perché una delle due sia emersa dalle fauci del buio, giganteggiando nell’empireo della Grande Letteratura, e l’altra sia rimasta più nell’ombra, non trovo la risposta nel valore della Pagina, impagabile in entrambi i casi, ma, semplificando moltissimo, nel fatto che Simone fosse più “contenuta” su certi temi, nella scrittura come nella vita, e che si sia impegnata moltissimo in politica e nel sociale, affiancando per di più il colosso della filosofia esistenzialista Sartre.

Dal canto suo, Anais invece aveva una relazione ben più tormentata e irrequieta – come lo era il suo animo – con lo scrittore Henry Miller, più celebre di lei (a mio giudizio – e questo sì è un giudizio personalissimo – immeritatamente).

Qui il parallelismo sorge spontaneo: Sartre e De Beauvoir furono e restarono, nella vita come nella letteratura, due giganti; la coppia Miller-Nin invece fu abitata da squilibri colossali. Anche in questo caso, la questione è complessa: la vita amorosa di Anais appare ben più tormentata di quella di Simone, basti pensare al triangolo Anais – Henry – June, moglie di Miller che Anais amò con spietato abbandono.

Esiste un testo che isola questo tema, “Henry e June” (pagine tratte dal diario non censurato di Anais) dal quale nel 1990 è stato tratto un film con Uma Thurman nel ruolo di Jane Miller. Esiste anche l’epistolario “Storia di una passione. Lettere 1932-1953” che testimonia gioie e cadute di questo amore.

Tutto questo per dire che Anais, rispetto a Simone, si concentra soprattutto sul mondo interiore e onirico dell’essere umano. Niente impegno politico e sociale. Eppure nei Diari, che offrono potenti lezioni di vita e di scrittura, intreccia meravigliosamente sogni, incubi e riflessioni su dati concreti quali il contesto sociale, usi e costumi del Messico e dei paesi nei quali si trova a viaggiare, il mercato editoriale, pennellate su artisti e protagonisti del mondo culturale del calibro di Tennesse Williams, e molto altro.

Verrebbe quasi da pensare che la dimensione onirica e interiore eletta al rango di protagonista finisca per contare meno dell’impegno sociale.

Sarebbe come sostenere che “la poesia non serve a niente” solo perché parla di piccole cose e “piccole persone”, citando Anna Maria Ortese.

Ma è di letteratura che stiamo parlando. Però, direbbe la Woolf, un istante: donne e letteratura, forse, è il vero tema.

Viene il dubbio che, in un mondo che fatica ad accettare che una donna possa mettersi in bocca e sulla pelle certe parole e certe immagini proprio come farebbe un uomo (come di fatto Henry Miller faceva nei suoi libri), una come Anais Nin non possa trovare spazio.

Chiudo con questa provocazione e rilancio precisando che Anais non si è mai definita femminista – come del resto altre grandi scrittrici delle quali la causa femminista ha finito per appropriarsi – eppure le sue pagine sono colme del desiderio di riscattare l’universo femminile, e il corpo in generale, dalle gabbie morali e sociali.

Anais non ha mai perorato cause pubbliche, non è mai stata un’attivista per i diritti della donna, non credo di averla mai “vista” in piazza con un cartello a protestare, eppure le pagine del suo diario e, a essere onesti, l’intera sua opera, se la si legge con attenzione, dimostrano come si può dire anche in forma informe di mistero e poesia, con prosa lirica e onrica, la stessa identica cosa.

Si può dirlo dichiarando “io sono femminista” e scrivendoci sopra un bellissimo saggio – come Il secondo sesso – oppure facendo del proprio corpo ciò che si desidera, offrendolo nudo senza paura, dipingendo le parole con la lingua e il colore e scrivendo libri che affermano continuamente quella libertà.

Passi Scelti

“..trovavo una certa dolcezza in questa nostalgia (…) avevo ritrovato la pace del corpo: questa decisa separazione lo sottoponeva a meno dura prova che non un incessante vai e vieni tra la presenza e l’assenza…”

“…uscivo vittoriosa dalla prova cui ero stata sottoposta; l’assenza, la solitudine, non avevano intaccato la mia felicità…”

“…mi parve d’esser sfuggita alla morte, e per sempre. Nel mio sollievo c’era perfino qualcosa di trionfante; decisamente ero nata con la camicia; la sfortuna non m’avrebbe mai raggiunta.”

Simone De Beauvoir, L’età forte

“La vita per me è una danza profonda, sacra, allegra, misteriosa, piena di sentimento. Ma è una danza. Per mercati, bordelli, mattatoi, macellerie, ospedali, io cammino col mio sogno spiegato, e mi perdo nei miei labirinti, e il sogno mi porta a gonfie vele.

Anais Nin, Diario 1934-1939

“Io vedo me stessa e la mia vita ogni giorno in modo diverso (…).

Cambio ogni giorno, cambio modelli, concetti, interpretazione. Sono una serie di umori e di sensazioni. Recito mille ruoli. Piango quando scopro che gli altri li recitano nei miei confronti.

Il mio vero io è sconosciuto (…).Creo un mito e una leggenda, una bugia, una favola, un mondo magico, un mondo che crolla ogni giorno e mi fa venir voglia di imboccare la strada di Virginia Woolf (…) Non ho fiducia in me stessa e ho una grande fiducia negli altri. Ho bisogno d’amore…

Inciampo e faccio errori, e spesso vorrei morire

(…)Penso che la vita sia tragica, non comica, perché non sono capace di distacco.

Ho peccato di idealismo, ho peccato di tutto, ma non di distacco.

Ho vissuto negli abissi (…) e non salgo quasi mai in superficie (…).

…non rinuncerò ad alcun sogno, non mi rassegnerò alla bruttezza, non accetterò alcun mondo se non quello creato da me (…) Soffro di una solitudine cronica.

Non mi sposerò mai, non avrò mai una casa. Il mio simbolo è una nave errante.

…ho sperimentato tutto e ora sono pronta a ricominciare daccapo”.

ANAIS NIN, DIARIO 1944-1947

La gente che trovo irresistibile è quella in cui non è stato ucciso il bambino.

Le qualità di apertura, fiducia, curiosità, tenerezza, impazienza, entusiasmo e altre indefinibili, vengono dal bambino che c’è in noi e sono fonte di fascino.

La risata e il sorriso che non calcolano, la spontaneità che non è bloccata.

Non riesco a ricordare un fascino “adulto” e non so nemmeno se esiste.

Anais Nin, Diario 1955-1966

“La fabulazione ci insegna che i dolori della vita sono significativi. La fabulazione recupera il significato. L’esperienza che si vive giorno per giorno può sembrare futile, distruttiva perché manca la visione della sua totalità. Nel romanzo acquista uno schema. È fabulazione. Va al di là del dolore verso modelli di significanza che ci consolano di tutte le angosce, e ne scoprono l’altezza”

Diario 1947-1955

“Essendo quello che sei, devi capire la gioia quasi dolorosa che provo per averti incontrata, gioia e stupore. Trovo colmata, in tutti i modi, la mia infinita solitudine, colmata in un modo che mi spaventa (….) e quasi non credo che tu ed io apparteniamo a questo mondo, ed è proprio questo, questo incontro troppo perfetto, che mi turba come un dolore. (…) I tuoi silenzi sono come i miei. Sei la sola di fronte alla quale non mi vergogni dei miei silenzi. (…) Tu mi metti di fronte al meglio o al peggio di me, ma, davanti a te, sento che non c’è bisogno che mi vergogni. Tu abiti il mio stesso dominio, ma puoi darmi tutto quello di cui manco, sei il mio complemento. La nostra immaginazione ama le stesse immagini, desidera le stesse forme, le stesse creazioni (…).

Una fatalità che è al di là di noi, ci ha spinto l’uno verso l’altro, e tu ne eri consapevole, tu hai visto le somiglianze, hai intuito il bene che avremmo potuto farci a vicenda.”

Lettera di Antonin Artaud ad Anais Nin, cit. in Anais Nin, Diario 1931-1934

Pubblicità

Guarire non è la soluzione

Per anni ho ascoltato le parole di chi dà buoni consigli perché non può dare il cattivo esempio.

Poi capisci, e smetti di dar credito a chi finge di interessarsi alla tua sorte quando nei fatti, guardandoti, non riesce ad accettare il mondo che porti. Avida di capire le cose del mondo, disimparavo la mia verità. Ma tutto è stato necessario per arrivar fin qui. Semplificando moltissimo, guru e santoni dicono che ci si ammala per attirare l’attenzione, perché si cerca amore. Sono d’accordo con guru e santoni. Poi però bisognerebbe indagare, capire cosa significhi per il singolo individuo la parola “amore”. Perché quando usiamo una parola come “amore” – ormai trita per il suo esser abusata, ormai così generica – non intendiamo tutti la stessa cosa. Rispetto? Accettazione? Cura? Gratificazione? E via di seguito. La lista di possibili potrebbe estendersi all’infinito. E poi, accettazione e rispetto da chi? Dal partner? Dalla madre e dal padre? Dal mondo intero? Da chi si vuole ottenere ciò che si desidera con tanto ardore?

Cosa intendo io per amore? Quando, a diciannove anni, una notte di luglio alle colonne di San Lorenzo, il mio compagno di allora – quello degli amori romantici che ti pugnalano alle spalle e servono a soffrire come si deve e farsi lo scudo – me lo chiese: “rispetto”, risposi. Quindici anni dopo, la mia risposta non è cambiata. Rispetto è un composto di re- “indietro” e spicio, verbo che in latino significa “osservare”, “guardare”. Ed è questo sguardo che sa penetrare il valore, uno sguardo che senza sapere il prima e il dopo di un’anima sa intuirlo, non insozzarne il colore. Il rispetto di cui parlo – quello che non bisognerebbe chiedere, ché il doverlo chiedere già ne avvilisce il senso – è la capacità dell’altro di accogliere l’immagine che io gli offro, non quella che l’altro sceglie per me. Non si può pretendere da chiunque lo stesso grado di sensibilità e acutezza. Così ci si stanca della pantomima e si sceglie di non offrirsi alle persone. E si è anche abbastanza intelligenti e consapevoli da non fargliene una colpa. Quello che vedete di una persona quando vi si para innanzi, corpo e respiro, è solo una presenza simulacrale, una forma possibile, una proiezione che costruite addosso a quell’essere umano filtrandola sulla base del vostro vissuto: quello che vedete di una persona è quello che siete, non ciò che quella persona è. Specialmente quando notate, di quella persona, qualcosa che non vi garba o addirittura vi infastidisce. Bisognerebbe chiedersi sempre: cosa c’è che non vedo?

Questa incomprensione di fondo nelle relazioni umane per me è disumana e mi fa soffrire.

Ciò che io sono non è ciò che sono e di cui non posso liberarmi – questo corpo questi occhi questo respiro – tutto ciò che vi si para innanzi quando mi guardate. Ciò che sono è il modo in cui io scelgo liberamente di proiettarmi, anche mentendo, nelle mie parole, nei miei disegni, nei miei sogni e nei miei incubi. Ma come puoi far comprendere una frase del genere a chi sgrana gli occhi e non capisce il senso di queste parole? L’arte per la quale una persona sputa sangue all’angolo dei perdenti, spesso alle corde, senza mai gettare la spugna è la vita della quale quella persona non può fare a meno: una vita che continuamente si esprime nel balzo oltre il reale ed esiste SOLO nella misura in cui lo trasfigura, questo reale. Il punto è che per certe persone tutto questo è futile, inessenziale, ridicolo, vale meno di zero, e a parlarne come di vita vera si fa la figura del giullare a corte. Mentre per me questa trasfigurazione, questa tana del bianconiglio non è una menzogna, non è un divertissement bensì la sola realtà cui riesco ancora a dare credito. Ed è la sola realtà perché è quella che scelgo. Perché ciò su cui, di me, non ho avuto alcuna voce in capitolo non è la mia verità. Io esisto nella misura in cui mi sogno e mi desidero, e solo in quella forma di sogno e desiderio.

Nascere è solo un accidente, qualcosa che capita e tu non puoi farci niente. E non è detto che la cosa ti piaccia. Magari non è l’abito che avresti scelto per te. Certo che esisto per come mi vedete camminare per strada o mangiare un piatto di pasta al sugo, mio malgrado. Ma lì mi sento inadatta e per me quell’azione vale meno di zero. Se volete sapere chi sono leggete le mie parole, guardate i miei disegni, fidatevi del balzo oltre il reale che vi propongo. Tutto il resto è artificio. Non dico che non ci sia del vero: con l’esperienza del vivere, con la pratica obbligata, qualcosa si riesce sempre ad apprendere e salvaguardare. Ma tutte le volte che si apre la porta della stanza e si esce da se stessi si perde in onestà e libertà. Siamo quello che siamo nelle nostre solitudini.

Quando si prova a tradurre in vita, al cospetto degli altri, l’integrità di questa verità che si nutre di silenzi non si può che fare una triste figura. Dovendo scegliere, scelgo di aderire ai miei simulacri, alle proiezioni che io creo di me stessa, non a quelle degli altri. Se le ho create, queste immagini di sogno, se le ho fatte esistere, significa che per me hanno valore. Ma se queste immagini che io propongo non vengono accettate, se vengono derise, respinte o ignorate, è naturale che, tornando al punto iniziale, la guarigione non può esistere. La malattia diventa cronica e bisogna limitare i danni restando a contatto con quei pochi esseri umani che mostrano di capire, e rispettare. In ciò che scrivo, nell’arte che creo si consuma tutto ciò che, di me, ai miei occhi ha peso e valore. Questa è la mia malattia. E non sono di quei malati che non vogliono guarire. Ce l’ho messa tutta. Ma, alle volte, questo gioco non vale la candela.

Guarire non sempre è la soluzione.

Alle volte, bisogna convivere con la propria malattia. E accettare che in questo essere in lotta con se stessi non c’è nulla di male.

Ph. Carmine Prestipino

Lettera a E. D.

Cara Emily,

ti scrivo per diletto e per schiantare il colore perché la solitudine è la tela sulla quale abbiamo reciso, incidendolo, qualche ramo storto, il petalo di un fiore. Nasciamo pagina bianca, subito viene il Nome, nostro malgrado. E tutte le vite che manchiamo ci cadono addosso come volti, come storie. Proviamo a farne qualcosa per non soccombere al pensiero di essere solo un Io.

Tu. Io. Sole.

Tu sai che ci sono silenzi che è meglio non dire, non sta bene. Io sono uno di quelli, mi piace troppo spesso abbandonarmi al suono di chi sogna e non vive o, vivendo, si consuma nella tentazione di cadere, di svanire.

Come può il silenzio fare tanto rumore?

Da qualche tempo mi sono trasferita in campagna: il mio silenzio partecipa dei suoi umori. Stamane, camminando per boschi, ho colto da terra una grande foglia secca e gialla, con venature rosse in rilievo. L’ho portata a casa, non meritava di essere calpestata. Ma in fondo quello era il suo destino.

Come si fa a ricomporre il senso di un evento mentre lo si vive?

Quando ho poggiato la foglia sul tavolo, la finestra era aperta e un vento gelido l’ha sollevata: l’ho vista scivolare via, cadere senza far rumore.

Un istante dopo, un uomo qualunque vestito di blu ci camminava sopra.

Se si spezza la misura del tempo, presto saremo sorelle.

Ti porto nel cuore,

M.

Venti. Cercare, lasciar andare

Se hai bisogno di cercarlo, significa che l’hai già perduto.

***

Si resta bambini solo per riconquistare il maltolto.

***

Non avremo perduto tutto finché non avremo smesso d’immaginarlo.

***

Città. Frale,

malsicuro ostello dei paria,

diseredati, Sradicati,

per destino, per scelta.

Smaniose di ‘Esserci’, mille e più Voci s’affollano. Non una che si oda davvero.

Qui, a mia Voce eleggo

il Silenzio. Vessato, invilito, sopraffatto,

Oggi, da bercianti rimbrotti, Domani sarà il grido che schianterà

il vostro cuore.

***

La bontà cieca è

stupidità.

In un cuore che si lascia attraversare, la gentilezza a prescindere, a proprio discapito,

quella gentilezza, dico, che il beneficato non ha gli strumenti per leggere,

vedere o, vieppiù, della quale si prende gioco,

è un grido di umanità violata rotto dal dolore.

Perniciosa per l’animo di chi la concede, inutile per chi (non) la riceve.

Il valore di un gesto, di una parola, nella polifonia del dialogo, esiste solo se è compreso.

Altrimenti, resta un monologo vacuo.

Altrimenti, quel valore esiste solo per chi lo muove.

Ed è nella solitudine che va cullato, protetto, per non smarrirsi,

non essere contaminato dalla cecità o dalla malagrazia altrui,

per non avvilirsi a tal segno da non volersi,

da non cercarsi più.

Abbiate cura di voi, durante il cammino.

Voltatevi indietro per ringraziare coloro dai quali vi siete lasciati ferire e poi

strappate la pagina

leccatela

sputatele addosso e

lasciatela andare.

In copertina: foto di Carmine Fotografie

Natale è tenere insieme i pezzi

È Natale. Provo a tenere insieme i pezzi di una famiglia che non esiste.

Mia sorella, pur di non vivere sotto lo stesso tetto con mia madre, dopo il liceo ha messo da parte l’idea di studiare e si è trovata un lavoro full time come cameriera. Full time, in gergo, da queste parti significa almeno dodici ore al giorno. È talmente brava e motivata che l’hanno assunta con regolare contratto. Al sud, cose da pazzi! Ora vive in centro città, paga l’affitto di una casa in cui torna solo per dormire e, siccome sono tempi duri, rinuncia al giorno di ferie. È felice, dice. Ed io le credo, nonostante veda il suo volto di diciannovenne consumarsi anzitempo dietro abili pennellate di rosso sulle labbra, capelli lisci come fili d’oro sempre freschi di piastra, il sorriso largo e gli occhi piccoli piccoli di pianto nascosto. È orgogliosa. Le credo perché, come me molti anni or sono, si è tolta quel peso: vivere sotto lo stesso tetto con mia madre. Quindici anni fa, pur di non vivere sotto lo stesso tetto con mia madre, volai a millequattrocento chilometri di distanza. Millequattrocento. Un pò plateale, lo ammetto. Ma solo le figlie di mia madre possono capire. E siamo solo in due. Gli altri, si limitano ad intuire.

Mia madre è sola. Non perchè qualcuno l’abbia lasciata sola, cosa che nei fatti è accaduta. Mia madre è invincibilmente e ineluttabilmente sola. Qualcosa le è rimasto impigliato nel cuore in un tempo del quale non ho contezza. Qualcosa del quale non riesce, non sa e non vuole liberarsi. Qualcosa, l’ha resa la donna arrabbiata e diffidente che ho imparato a conoscere. Qualcosa che, nonostante tutto, ho il terrore che alla lunga finisca per toccare anche me. Non è forse questa la paura più grande di certi figli? No, io non sarò mai come mia madre, non sarò mai come mio padre. Non commetterò gli stessi errori.

Mia madre si comporta come se tutto il mondo fosse orribile. Tutto. Si lamenta. Si lamenta sempre. Si lamenta di tutto. Anche questa pandemia per lei è un complotto del mondo nei suoi confronti. Eppure domani è Natale. E la famiglia che mia madre ha lottato per costruire con rudimenti d’amore parentale scarsissimi (i miei nonni erano genitori tutt’altro che innamorati, tutt’altro che genitori) e con ferri arrugginiti agguantati a caro prezzo dagli sconosciuti – questa famiglia, dico, la nostra famiglia – non esiste.

Tu sei sempre stata buona di carattere, tua sorella ha qualcosa che non va, ama ripetere mia madre, anche in presenza di mia sorella. Mia sorella non mi odia per questo, almeno spero, ma certo non dev’essere stato facile, mentre ero lontana, crescere con una madre che le ripeteva di non valere niente. Tranquilla, la rassicuro, lo diceva anche a me quando avevo la tua età. Abbi pazienza ancora una quindicina d’anni: non cambierà opinione ma si stancherà di dirlo. In realtà, mento: mia madre è un’instancabile insoddisfatta e non perde mai occasione di ricordarti che non sei o non fai abbastanza. Io non penso affatto che mia madre sia cattiva, ha solo sbagliato “mestiere”, se così si può dire. In un mondo ideale la smetteremo di pensare che “essere madre” è la “vocazione naturale” di ogni donna. Non qui, non ancora. Ci stiamo lavorando. Penso invece che mia madre fosse una bravissima ballerina: da bambina restavo sedotta guardandola esercitarsi in sala prove; quelli in cui danzava, stretta nel suo body colorato e nei pantacollant anni ottanta, erano i momenti in cui la vedevo sempre sinceramente felice. Penso che avrebbe dovuto continuare su quella strada e poi magari insegnare, aprirsi una scuola di danza tutta sua: mia madre ha anche la naturale vocazione ad essere “capo”, a organizzare le cose, a far quadrare i conti; in casa lo ha sempre fatto in maniera straordinaria. Penso che avrebbe dovuto credere di più in sé stessa e sono quasi certa che non abbia avuto accanto qualcuno che credesse abbastanza in lei, abbastanza da ripeterglielo e persuaderla. Nella vita si salvano solo coloro che hanno la fortuna di trovare uno o più “aiutanti”. Non dico tanto per dire, l’ho imparato di recente. Soli, non siamo niente. Soli, non possiamo farcela.

Il punto è che domani è Natale e io sono quella buona. Se la morte non santifica nessuno, il Natale forse sì, mi dico. Quando mia madre morirà non smetterò di pensare a tutto il bene e a tutto il “male” che ci ha fatto. Con quel carico di rancore verso non so chi e non so cosa rigettato su di noi, con i suoi che schifo, vergognati, non stai bene, sei orribile, sei cattiva. Ma oggi, pensare a mia madre sola in una casa gelida (lo è davvero, gelida) il giorno di Natale mi spezza: non so se sia vera bontà o solo egoismo, prova certa della mia difficoltà di ignorare il lamento di chi mi rinfaccia di essere la causa del suo dolore.

Mi avete lasciato sola. Sono vostra madre e mi avete lasciato sola.

No, vorrei dirle, Tu ti sei lasciata sola.

Ogni tanto mi chiedo come sarà da vecchia. Penso che avrà ancora forza da vendere per sfiancarci. Penso che potrebbe persino sopravvivermi. Sì, è talmente agguerrita che potrebbe sopravvivermi. Ogni tanto mi chiedo come io sarò da vecchia. Se mai ci arriverò, ad essere vecchia. Qualche traguardo l’ho raggiunto eppure di fronte a lei mi sento ancora una nullità. Domani mi sentirò una nullità ma tutto questo, almeno per domani, non conta. Domani è Natale.

Provo a tenere insieme i pezzi di una famiglia che non esiste. Ma forse, da inguaribile romantica, il cuore combatte con la ragione e dice che c’è ancora speranza. Ho visto mia madre sorridere felice e soddisfatta, tanto tempo fa, in quella sala prove. Forse può succedere ancora. Forse c’è ancora tempo per rimettere insieme i pezzi.

Un giorno queste tre donne – una madre e due figlie, tutto ciò che resta di una famiglia mai esistita – si ritroveranno insieme e questa famiglia esisterà. Se tutto va bene, sarò ancora qui per vederla.

Venti Metri Quadri

Quanto spazio serve per sognare? Quanto cielo?
Venti metri quadri bastano? Senza cielo, intendo.
In venti metri quadri noi ci viviamo e ci abbiamo trascorso tutti i lockdown, passati e futuri.
E il mondo? E lo spazio? Ma ce la fate a respirare?

Quando il letto è aperto, uno dei due si muove, l’altro si siede e aspetta. Abbiamo imparato la pazienza dei forti.
Io, veramente, ho imparato da Renato Pozzetto e da quindici anni di vita in stanze sgangherate a Milano.

In venti metri quadri disegnamo e dipingiamo, in venti metri quadri abbiamo allestito un set fotografico e girato qualche video, in venti metri scriviamo giorno e notte balliamo facciamo stretching meditiamo inventiamo storie e personaggi giochiamo col buio e con le luci abbiamo inventato un format radiofonico e ci siamo costruiti lo studio di registrazione (sì, sì, con tanto di microfono e tastiera per comporre musica, perchè di soldi non ne abbiamo molti ma di idee e sogni da riempirci il mondo, altro che venti metri quadri).

Un giorno, per gioco, quando ancora potevamo scegliere, siamo andati a giocare nel bosco, alle pendici dell’Etna: avevo dimenticato il colore del cielo e delle foglie.
Di cielo, di foglie e di boschi, vi giuro, ne ho visti tanti.
Ma il mondo che siamo riusciti a costruire in questi venti metri quadri, vi giuro, io non lo avevo toccato e gustato mai: era sempre stato lì, solo lì, nella mia mente.
Il merito è di Chi, ogni volta che immagino e sogno qualcosa non solo dice “ok, facciamolo!” ma si siede e discute con me una strategia, un metodo.
Perché sì, amici, in venti metri quadri impari anche che per realizzare un sogno ci vuole metodo, disciplina e forza da vendere.

P.S. Per chi non conoscesse la citazione di Pozzetto, consiglio veloce riassunto. Taaac: https://www.youtube.com/watch?v=GM5k7eciWAM

In copertina: foto di Carmine Fotografie

Appunti per una vita mancata

Si resta soli solo per esistere meglio: nel dedalo di echi e chimere emergono le scorie, scarti di un’esistenza fin troppo consapevole per non ammettersi. 

Ogni libro nasce da una mancanza che riscatta l’esistenza. Ma ogni libro nasce soprattutto da un amore: quello per l’atto del leggere inteso come quesito ostinato ed incessante dinnanzi all’incompiutezza e illogicità del reale.

Leggere è un gesto che obbliga la mente ad uno stato tensivo iperbolico, un concentrato di vita immaginata, un sovrappiù di vita densificato, rattenuto nell’intimo, che compensa la stasi solo apparente cui il corpo è chiamato. Esiste un tempo in cui ci si protegge dagli strali del mondo facendo della Pagina letta la dimora di solitudine eletta. L’atto del leggere è sempre anche un riscrivere. Di questa vita sospesa ho raccolto gli Scarti: lasciavo i cocci sparsi ovunque, appuntavo Consapevolezze in singulti e frasi sibilline sulla Pagina, lentamente scoprivo, dietro e dentro la Pagina letta, qualcosa di me.

Serve tempo per raccogliere i cocci sparsi e tracciare la rotta. La Parola e la Vita lentamente si fondono: la Parola diventa un’arma per penetrare la Vita e si fa Voce.

Nessuno ci ha chiesto se volessimo nascere, eppure eccoci qui, gettati nella mischia. 

Non sempre è uno spasso. 

Mentre la tristezza si giustifica sia col ragionamento sia con l’osservazione, la gioia è basata su niente, partecipa del vaneggiare. Non si può essere gioiosi per il solo fatto di vivere; all’opposto si è tristi non appena aperti gli occhi”, dice Cioran. 

Come dargli torto? Veniamo al mondo piangendo, ce ne partiamo, sovente, nel più assoluto dei silenzi. Il che la dice lunga sulla vita. 

Ma se si imparano le regole del gioco, poi viene voglia di giocare, divertirsi.

“Ridere è una ragione sufficiente per andare avanti”, dice 𝙂𝙧𝙤𝙪𝙘𝙝𝙤 𝙈𝙖𝙧𝙭. Come dargli torto? Non che abbia ancora capito come si vive: perlopiù 𝙞𝙢𝙥𝙧𝙤𝙫𝙫𝙞𝙨𝙤.

E quando, vinti ma felici, si comincia a dialogare, oltre che con le Pagine dei Grandi, con i propri piccoli inutili Frantumi, lì inizia il gioco, il divertimento: si prende a tracciare segni fragili pensandoli eterni, miraggi nei quali esistere con onestà, sperando possano servire a qualcuno. 

Quegli appunti, quegli scarti, restituiscono dignità ad una mancanza

Le Parole sono la vita di chi ha mancato la Vita? Non può comunque dirsi vita una Parola? 

Ho scelto alcuni frammenti e li ho strappati al silenzio, alla solitudine in cui sono nati.

Perché solo scagliando la carne dei propri demoni sui tizzoni ardenti della Vita si può sperare di vincerli. Scrivere per Frammenti è portare sguardi fugaci ma attenti sulle cose: in un mondo disintegrato sotto il peso del paradosso, il Frammento si impone come un modo possibile di dire il reale restando fedeli a se stessi.

Si arriva così al Senso di questi Frammenti, che grida per ricomporne il Caos. 

E il Senso, lo scopo, non è offrire a qualcuno una risposta ma, ancora e sempre, una Domanda. L’insieme dei cocci costituisce una sorta di breviario di simboli e suggestioni: accade come la vita, senza un senso apparente. Eppure traccia un percorso invisibile ma intuibile nell’istante in cui si congiungono le tessere del mosaico: ogni tessera è una monade a sé stante e vale come tale, ma è unendo i frammenti che emerge una mappa verso la consapevolezza. Avrei potuto scegliere una forma diversa, ma non sarei stata onesta: la consapevolezza è giunta per lampi e strali ed è così che ho voluto restituirla. 

Chi legge potrà forse essere aiutato non già ad evitare le cadute ma ad intercettare l’istante che le precede, affrontare con consapevolezza il dolore di esistere, sapendo che ogni consapevolezza nasce come Ferita per trasformarsi in Possibilità. Nel mio caso la ferita era già aperta: l’atto del leggere le ha concesso di sanguinare, eliminare le scorie; dialogare e riscrivere i testi letti ha permesso di medicare, rimarginare. Scrivere è la nuova pelle vocata a metamorfosare se stessa ogni giorno, in un ciclo continuo ed inesausto di morte e rinascita.

Se anche chi legge resta ferito e trafitto è perchè, leggendo, ha scoperchiato il vaso di Pandora. 

Se mi concedo di dire “Io”, in questi scarti, non è per far la morale ma perché continuamente lancio strali contro me stessa: nonostante la forma imperiosa dell’aforisma, nessun intento moralizzatore, dunque (anzi, un onesto aforista conosce la contraddizione insita nel reale, e non fa la morale a nessuno. Vedi il solito Cioran, di cui sopra). 

Ma chi legge, in ogni momento, potrà dialogare con le Parole, riscriverle e dire “Io”

Perché, nonostante tutto, quel misero “Io” è la sola toppa che tiene insieme una stoffa lacera e consunta. La sola che abbiamo.

I miei cocci sono sparsi ovunque ma soprattutto qui:

https://morganachittariblog.wordpress.com/scrittura/massime-e-apoftegmi/

e qui: https://morganachittariblog.wordpress.com/frantumi/

In copertina: foto di Carmine Fotografie

Una cosa semplice sulla Scrittura, facendo il giro largo

Voglio dire una cosa semplice sulla Scrittura, ma farò il giro largo: concedetemelo.

Tre giorni un mio racconto si è aggiudicato il primo premio della Sezione C“Un libro in una pagina” di Etnabook, Festival Internazionale del Libro e della Cultura di Catania.

Una cosa piccola ma bella.
Perché? 

Ho sempre provato grande scetticismo verso questo genere di competizioni. 

Come tutti quelli che hanno un concetto sognante della creazione artistica pecco spesso di eccesso di “astrazione”, mi muovo in una bolla onirica di godimento personale nella quale cose concrete come “promuovere” il mio scrivere, parlarne sui social o semplicemente trovare un modo efficace di comunicarlo sembra arrogante (a me stessa, soprattutto, più che agli altri, e ora vado a spiegare il “perché”).

In una frase, quando si tratta di ciò che amo fatico a scendere a compromessi con la realtà. E chi mi conosce sa bene quanto questa frase riassuma l’essenza di ciò che sono.

Il bello è che io la amo, la vita, proprio per le sue imperfezioni.

Ma, tornando al punto, per una persona come me, la sfida più grande insita nel partecipare ad un concorso letterario era persuadersi che anche se chi mi leggeva non lo avrebbe apprezzato, quello che facevo aveva un valore.

Perché qualcuno terrebbe chiuse nel cassetto centinaia di migliaia di pagine se non per timore di essere giudicato inadeguato e umiliato in ciò che ama? 

(Chiedo venia per la banalità dell’immagine ma qualche volta i luoghi comuni rivelano profonde verità).

Ora parlo a chi scrive, e anche a chi vorrebbe ma non sa da dove iniziare

In entrambi i casi, credo che il problema sia sempre INIZIARE. Come nella vita, in generale.

Per chi scrive, iniziare a esporre al mondo ciò che scrive.

Per chi non lo ha mai fatto e magari crede di non saperlo fare, iniziare a farlo e poi studiare, approfondire le parole e gli strumenti per migliorarsi- 

E come inizia a scrivere, chi scrive?

Leggendo. Naturalmente, parlo basandomi sulla mia esperienza personale. Leggere, per me, non significa scorrere un testo ma dialogare con i segni sulla pagina, produrre un vortice di nuovi segni e immagini  (spesso appuntando parole sulla pagina stessa, in intimo dialogo con l’autore), immaginare di esperire fisicamente la storia che leggo, innamorandomi del dio delle parole che l’ha creata fino al punto da voler essere come lui/lei. E, immediatamente dopo, cercare e indagare a fondo gli strumenti che mi consentano di crearla io stessa, una storia, una vita nuova sulla pagina. Primo tra tutti, la parola. Secondo, lo sguardo. Terzo, l’emozione.

Le parole le ho cercate ovunque e attraverso i dizionari le ho vivisezionate e memorizzate.

Lo sguardo l’ho allenato sempre, come l’emozione, in ogni cosa che ho vissuto.

E una storia vecchissima, che in molti conoscono. 

Ve lo immaginate Kubrick che non guarda film e non si ispira a nessuno per fare cinema? 

O Freddy Mercury che non ascolta musica e non si ispira a nessuno per fare musica? 

Me lo sono chiesta spesso: perché è così chiaro per altre arti ma non per le parole?

Io ho passato la vita a desiderare di essere qualcun’altro, con il bello e il brutto che questo desiderio comporta: col teatro ci sono riuscita, qualche volta; ma quando ero sola con me stessa contro i miei demoni, cioè il più delle volte, sognavo di essere Conan Doyle, Anais Nin, Thoreau, Simone De Beauvoir, Victor Hugo, Virginia Woolf, Edgar Allan Poe, Calvino e altri che non basterebbe una vita intera per dirli tutti. 

Non ci riuscirò mai: sono troppi, dannazione! 

Posso accontentarmi di essere solo io e cercare di trovare il modo di farci stare tutti questi sogni dentro la cosa piccola e fragile che sono. 

So di essere “sbagliata” in molte cose e, nel corso della mia vita, come tutti, ho avuto il privilegio d’incontrare persone che non mancavano di farmelo notare.

Dico “privilegio” perché penso che abbia senso ringraziare di tanto in tanto quelli che non ci hanno dato credito (insieme ai “grazie” di rito a coloro che hanno creduto in noi).

Tornando al concorso e all’ansia di esporsi: il punto è scoprire che non è colpa di nessuno se pensiamo di non valere.

Diceva un filosofo che adoro, Emil Cioran, nei suoi Quaderni

 “Lavorare per meritare il rispetto di me stesso. A far male non è il disprezzo degli altri, ma il proprio”.

Il vero problema è racchiuso in un’altra frase sempre dell’amico Cioran, creatura altissima che spero non si offenda se gli rubo le parole (dai grandi bisogna rubare, dai grandi!):

“ognuno di noi è il prodotto dei suoi mali passati e, se è ansioso, dei suoi mali futuri” (La caduta nel tempo)

e anche

“Ciò che so demolisce ciò che voglio” (Confessioni e anatemi).

Per farla breve, la lezione credo di averla imparata e siccome fra un paio di giorni compio trentaquattro anni, superando ufficialmente la soglia anagrafica oltre la quale, anche per la religione, non fa più scalpore morire o sparire, ho deciso di farmi questo regalo e guardare questo piccolo premio con dolcezza: non tanto come il riconoscimento del valore di un particolare racconto (quello col quale ho partecipato, che è giusto una parte infinitesimale, una goccia attinta dall’oceano delle “sudate carte”) ma come il complimento sincero e disinteressato da parte di sconosciuti (i membri della giuria che hanno scelto il mio testo tra una miriade di altri in concorso) per oltre vent’anni di lavoro, vent’anni nei quali, anche quando ero sola e nessuno mi vedeva, continuavo a scrivere e amare le parole, il mio mestiere.

Perchè, in fondo, è di questo che stiamo parlando.

E ora che c’è una targa a riconoscerlo possiamo dirlo, no? (Concedetemi, senza polemica, qui so che posso e mi capite, questo fugace divertissement ironico verso il fatto che c’è chi si accorge solo oggi – giustamente, è così che va il mondo! – e questi vent’anni precedenti nemmeno immagina quanto contino, nemmeno li vede).

E no, un libro non l’ho pubblicato. Ma è anche vero che non ho mai avuto il coraggio di provarci. 

Ma che le parole sono il mio mestiere, con tutti i meravigliosi fallimenti ed errori che potrò commettere, lo capisco non perché lo so ma perché tutto ciò che faccio e ho fatto nella mia vita alla fine, che mi piaccia o no, mi riporta sempre lì, alla pagina, il luogo dove mi riesce di creare un Tutto col Poco o Niente che sono.

“Ogni istante che passava, sapevo che passava e che non lo avrei mai più rivisto”, dice Cioran, sempre lui, nei Quaderni. E ancora “Nella vita la cosa più terribile è non cercare più”.

Perciò non perdete tempo, trovate qualcosa nella vostra vita che vi faccia sentire Tutto col Poco o Niente che siete, e fatela.

Fatela ogni giorno, per tutta la vita.

Il racconto Cinquecento – Premio Etnabook 2020

Il racconto Cinquecento, versione originale

Link ai video su Facebook:

Annuncio primo premio

Diretta premiazione e lettura racconto

In copertina: Chimere (acrilico e tempera su carta, 24 x 33)

Diciannove. Amando, AmarSi

Chi corre verso la vita, è capace di oblio. Chi ricorda, chi esita, chi ha un animo troppo poetico, pende rovinosamente verso la morte.

Non è iniziare ad amare il difficile. Un bel sentimento, l’amore, strabocchevole d’euforia e di illusioni. Il punto è, caduta l’illusione, seguitare ad amare.

Se la nostra libertà è (possibile) in un Altro, è in colui ch’è capace di amarci senza privarci della nostra solitudine.

Amare, talvolta, significa mettere a repentaglio i propri limiti, valicarli senza avvedersene e scegliere di tradirsi. Come si fa a restare fedeli a se stessi quando si ama senza riserve?

Amando, talvolta, ci si dimentica.