Dust to dust I gasp for air

“…arrendersi, no, ma,
fatti miei, alla fin fine,
che affondo in un amore da canzone:
che ogni sguardo mi è una rivoluzione…”

Michele Trevi, quindici anni, venti poesie. Stop. Fine. Uno qualunque, come te e come me. Tutti giovani tranne lui, tutti giovani tranne noi. Inesistenza che insiste e genera storia, assenza che è essenza dell’azione di chi resta. La morte, nel raccontare, è inizio di ogni cosa: della creazione e della creatura, mostro (s)fatto di brandelli “si erano mangiati a vicenda nel tentativo disperato di liberarsi”, brandelli di mille creature intrecciate l’un l’altra.

Come dopo aver letto Binari di Monica Pezzella, i muscoli dello stomaco mescolano le Voci con gli acidi e gli enzimi per disintegrarle ma pezzi di corpi schizzati fuori restano incollati alle pareti dell’intestino. Non vanno giù. Così ho messo in cuffia “Raise the dead” e “War” dei Bathory, in loop, ho riletto le poesie di Michele Trevi, qualche passaggio de “La Bella e la Bestia” e ho iniziato a scrivere.

“Dust to dust
I gasp for air
I scream for sight
and fight against
torment and dread
Calling the vengeance
I tear at the lid
and promise to raise
from the dead

Raise the dead

Chi è Mimì? Un corpo: la gobba. Una lettera: “B”.

Bestia basta bara. Come un singhiozzo, e Mimì infatti piange e spara e ad ogni lacrima, ad ogni colpo di pistola ti ficca la sua “b” in gola come un montante ben assestato sul busto, dritto al plesso solare, di quelli che quando arriva, letteralmente, ti spezza il fiato. E ti senti morire.

Con rigore geometrico e allucinato Mimì piange e uccide, uccide e piange, con quel nome, Mimì, che fa quasi tenerezza: una specie di miagolìo, squittìo pietoso, un suono squillante: Mimì.

Fa quasi ridere, quel nome, fa pisciare nelle mutande dal ridere. Che cazzo di nome per un boss, Mimì. Una cosa da niente, una nota stonata. Ma è dallo scarto tra suono e senso delle parole, è dal conflitto che nasce il grido, nasce l’orrore.

“è un soffitto ammuffito e senza voglia,
è una geografia di una qualche vita
lasciata non finita su una soglia,
atroce e uguale mentre tutto cambia –
e mai il coraggio di un colpo di grazia,
e mai il coraggio di un colpo di grazia.”

Chi è Veli? Il guardiano che è anche il prigioniero.

Veli gettato lì nel capanno come un sacco di munnizza, abbandonato, deve controllare Nicole, la sconosciuta alla quale sovrappone l’immagine della donna amata, Arianna, altra assenza alla quale un personaggio si rivolge.

Perché tutti, in questo libro, in un modo o nell’altro, parlano ai morti, passati e futuri, agli assenti, o agiscono per causa loro.

Ai vivi non c’è niente da dire, con i vivi bisogna agire: prendere la pistola, il coltello, e agire.

Anche le parole sono una maschera. Una forma altra della stilettata.

E che nome è Veli? Un suono delicato, che scivola, lento, quasi patetico nel suo dolore.

“nei corridoi liceali
dove c’è penombra di anime e cuori
e cazzi sui muri e banchi scheggiati

e le ore si contano e i passi pure
in ogni aula un pianto o una risata
e mai mai mai io mai così tanto vuoto
lontano crepato non so cos’altro
(sono una nazione invasa da chiunque
una canzone stonata da chiunque
truciolato mangiucchiato da chiunque
ma specialmente ovviamente da te”

Chi è Nicole?

Qualcuno da accusare, qualcuno da rinchiudere, qualcuno su cui pesano simulacri di altri corpi, corpo che muove pensieri e e azioni. Per lei Michele suo – così dice, così pensa Mimì, come un’ossessione – per lei si è ucciso.

Come Nicole anche Arianna è prigioniera – Nicole nel capanno, Arianna nella propria casa –  e come Arianna anche Nicole vuole fuggire. Su di lei Veli sovrappone l’immagine di Arianna, si diceva. Nicole è corpo-funzione: genera ricordi, pensieri, azioni, sensazioni.

Nicole è corpo che trema, che ha paura del ricordo del corpo morto di suo padre, non della propria morte: se anche sopravvivesse dovrebbe convivere con il pensiero del corpo del padre.

Suddenly powers comes
from within
Muscles and mind are
filled with wrath
I burst out in frenzy
powers of hell
and break up the
tomb and the dark

Raise the dead”

Chi è Marta? Madre, di Arianna e Michele. Un suono, qualcosa di duro con “tr” e “dr” dentro ma anche qualcosa di dolce con “ese” “ase” e “sf”: una pietra, madre, misteriosa, pietra di una cattedrale, con cui furono costruite “le chiese e le case più vecchie del paese (…) quella pietra che si sfarina appena la sfiori”.

Marta odia Arianna – madre che odia figlia, e non diciamo come – ma è solo una delle tante forme di odio.

Qui tutti hanno o cercano qualcuno da odiare, qualcuno da uccidere, qualcuno da amare.

“…eapers and vultures
Demons
stand up
and chime the bell

Raise the dead”

Dove si muovono, parlano e pensano i personaggi?

C’è una casa, una famiglia – per tutti casa e famiglia = rifugio, cura, protezione.

Qui casa, qui famiglia = abuso, sopruso, violenza, omicidio, canna della pistola in gola, sparo, bestia, bara.

C’è un capanno abbandonato, topi morti, wurstel scadenti e mele, spazzatura, un coltello, sangue, polvere, escrementi: il luogo meno sicuro diventa rifugio, luogo dove il gioco, la tenerezza, la cura tra due esseri umani – che non sono famiglia eppure per un attimo lo sono – sono ancora possibili.

Quali esseri umani? Veli e Nicole, guardiano in gabbia e prigioniera.

Dentro il capanno si sta al sicuro, almeno finchè le due linee narrative, quella dentro e quella fuori, si intrecciano: la bestia irrompe.

“A crack of thunder, a smell of death
the wind of mayhem blows
Heaven in its final breath
and God lose all control

Prayers for mercy cries for help
won’t stop the blasphemy
Our troops emerge the sacred throne
and the victory is complete”

Perché ho scritto?

Per liberarmi di questi personaggi e di queste voci che mi si appiccicano addosso come bava di topo, un topo che ha qualcosa che sa di tenerezza.

No, meglio, di delicatezza.

Michele, ragazzo poeta che vola come Birdman dal settimo piano, vola ma non si è mai schiantato: continua a volare.

Scrivo perché questo libro ha conquistato un lettore per niente facile (uno che non leggeva da tempo).

Perché? Gli chiedo. Per il ritmo, dice: è come un rif di chitarra.

Io sono una lettrice, non conto; ma se un musicista dice che in questo libro si sente il suono delle parole significa che è vero. E questa volta, su questo libro, siamo tutti d’accordo. Abbiamo tutti ragione. È una cosa bellissima: avere ragione, intendo. Significa che questo libro è arrivato dove doveva arrivare. A tutti.

Scrivo pensando alle voci di Faulkner in Mentre morivo.

Scrivo pensando a come questo romanzo sia stato scritto: per essere divorato, fagocitato, ingurgitato come una puntata di Black Mirror, tutto e subito, forgiato nel ritmo sincopato dei nostri giorni, in quella danza indiavolata che è il nostro fruire i prodotti seriali, l’arte, la vita.

Un ritmo spezzato, ossessivo, fatto di personaggi creati per esistere fuori dalla pagina. Come lui

Michele Trevi.

Andrea Donaera padroneggia i dialoghi, e il loro alternarsi con i monologhi interiori, in modo straordinario. Non ho mai letto uno scrittore contemporaneo che sappia farlo con tanta leggerezza.

Penso che Andrea volesse che ricordassimo che questo libro è nato per la scena, per il teatro: non c’è pericolo che ce ne dimentichiamo.

Anche Andrea, come Michele, ha deciso di esistere dentro e fuori/oltre la pagina e sembra dirci, come scrittore: la scrittura deve tener conto dei tic interiori dell’epoca frantumata che stiamo vivendo e un libro, se “pretende” di essere letto oggi, deve trasformare questi tic in segno grafico sulla pagina e portare dentro il libro le forme di narrazione che libro non sono.

Andrea è scrittore-mente pensante-aggregatore culturale: lo seguo da qualche tempo, sento che parla un linguaggio che molti che non scrivono possono capire per poi arrivare ad altro. Andrea dice “ca**” e ride (ho provato a contare le volte in cui dice “ca***” e ride nel suo meraviglioso podcast ‘Ntrame, ho perso il conto) e non lo fa per posa, per fare il giovane o per sentirsi giovane, per strizzare l’occhio a qualcuno: parla come pensa, traduce dal dialetto (dice) e intanto cita Gospodinov e Amelia Rosselli con disinvoltura.

È uno che sa perché scrive e cosa significa scrivere in termini di perseveranza e dedizione ma è anche, lungi dagli stereotipi dello scrittore elitario, uno che non ha rinunciato a dialogare con le ferite-persone del presente e dar loro dignità nei libri.

La morte è disseminata ovunque nel suo libro: morte fisica, violenta, morte veloce o lenta, inesorabile, morte che genera vita e genera storia.

La morte fa scrivere. L’arte nasce dalla paura della morte e nasce per sfidare la morte, giocarci al biliardino (non a scacchi, troppo intellettuale).

“Io sono la bestia” è una discesa agli inferi ineluttabile, senza risalita, senza morale e consolazione finale (ché in letteratura morale e consolazione sono la cosa peggiore).

Andrea Donaera infila dentro la sua storia i mostri che percepiamo come vicini, possibili, umani troppo umani proprio perché ce ne mostra le crepe e le incrinature.

La bestia sono io, la bestia sei tu. Se tu vuoi sopravvivere devi essere più bestia della bestia.

Alla fine del libro tutto ricomincia dal punto in cui era iniziato. Come ho scritto per il romanzo di Monica Pezzella, Binari. L’inizio dalla e nella fine.

Senza finire.


“…e in tutte le piazze ti vedo, e spero,
di smetterla coi sogni
di te stesa bocconi
uguale a me: che ti amo
perché non amo me,
ma io non ho che me.”

Il libro del quale non ho fatto la recensione è “Io sono la bestia” di Andrea Donaera, NNE Editore

Brani musicali citati (in inglese):

Bathory, War; Bathory, Raise the dead

Frammenti citati (in italiano):

Michele Trevi – Quaderno d’addio
20 poesie alla Bella N.

Immagine di copertina: Poster dei Bathory (citato nel libro di Andrea Donaera)

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A Mavara

È giunto il momento di non tacere. E’ già la terza volta che accade.

Tre, numero magico, mistico, profetico.

Tre, cantiche della Commedia.

Tre, Giona nella balena.

Tre, le Madonne. Persino Aldo, Giovanni e Giacomo, per dire. Tre.

Per tre volte è accaduto che qualcuno riemergesse dalle nebbie del mio passato, dopo dieci anni di silenzi e strade divise da chissà quali malintesi e incomprensioni, solo per dirmi cose come

“Avevi ragione.”

“Avevi capito già allora.”

“Me lo avevi detto.”

“È come se avessi visto prima quello che sarebbe accaduto.”

Ora, io non sono una da “te lo avevo detto” ma, nonostante la veneranda età, continuo a lasciarmi stupire dalle cose. Diciamo pure che le noto. Diciamo pure che le vedo meglio di altri, che metto insieme i pezzi. Non posso fare a meno di sorprendermi se qualcuno, mosso da non so quale empito, dopo anni di silenzi e distanze, mi cerca solo per dirmi queste parole.

Pur avendo una certa dimistichezza con morti e fantasmi, pur essendo avida lettrice di Poe, Shirley, Hoffman e compagnia cantante, non ho ancora capito come tutto ciò possa incidere sulla mia vita (perché su quella degli altri, a quanto pare, ha un peso). Sono certa però che inciderà sul Cosmo, Universo o comunque lo vogliate chiamare. Non vi spaventate, nulla di grave: non ci sono morti o fantasmi in questa storia (almeno credo).

In questo periodo, a causa dei singolari eventi dei quali vi narro, ripenso molto a mia Nonna, donna perduta spezzata sconfitta, e scrivo molto di Lei. Lei che in famiglia, e non solo, qualcuno chiamava “A mavara” (strega, fattucchiera, in siciliano). Rimasta nel limbo, impigliata nella ragnatela che Lei stessa ha tessuto per anni, morta in vita e che pure forse ancora vive. Su di Lei, due anni fa, in un momento di crollo shakerato con adrenalina, ho scritto un monologo potentissimo che tengo chiuso nel baule col catenaccio. Ho paura di rileggermi.

Oggi mi chiedo: chissà se lo era davvero, una strega? Chissà se potrebbe aiutarmi. Le scriverò una lettera, è così che si fa con i vivi che non puoi vedere o con i morti che si fanno sentire. Non so se sono una strega però non mi dispiace sapere che dove altri si fermano io vado oltre. Diciamo che mi piacerebbe saperne di più, su questa cosa, avere altri segni. La quarta e la quinta volta, magari arriviamo fino alla nona. Facciamo nove, numero perfetto.

Intanto, mentre i vivi ricompaiono come ombre dal passato per sussurrarmi all’orecchio “avevi ragione”, ripenso a come ho sempre accettato il rifiuto, l’incomprensione, persino lo sberleffo di certe persone. È bello, oggi, vedere tutto questo sotto una luce diversa: chissà, forse anche queste persone, semplicemente, non potevano vedere.

Sono qui comunque, aspetto.

Altri dieci anni e vediamo che succede.

In foto, nonna Angela, A Mavara.

Volevo scrivere di Bolaño e Bernhard ma a Catania Parte 1 (ieri) e Parte 2 (oggi)

Parte 1 (ieri)

Volevo scrivere di Bolaño e Bernhard ma Catania si sta inabissando sotto litri di pioggia.

Avrei voluto parlarvi di Roberto Bolaño e Thomas Bernhard, dello stupore di scoprire a più di trent’anni due autori che sono colossi della letteratura mondiale e che ancora molti lettori – e tra questi lettori c’ero io fino a qualche mese fa – non conoscono. L’ironia pungente di una voce unica, miseria fango sesso libero e bordelli mescolati con garbo nel cielo tutto Messico e nuvole immagini di sogno che ci perdono in parole come ragnatele e vomiti cristallizzati circuiti ossessivi e un ritmo forsennato, implacabile.

Uno stile straordinario, questi due folli.

Avrei voluto scrivere di tutto questo ma Catania si sta inabissando sotto litri di pioggia e, in momenti in cui devi sollevare la gonna fin sopra le mutande – per fortuna ultimamente non porto la gonna, non porto nemmeno le mutande ma comode tute sportive – devi preoccuparti di cose meno nobili, per così dire, meno alte. Più terra terra – che è dove finisce la tua anima quando ti preoccupi per cose quotidiane, cosiddette essenziali, cosiddette minimo sindacale per una vita civile e ti senti l’acqua alla gola. Non di solo pane si vive, e uno ci prova.

Finchè poi non ti entra l’acqua in casa – o almeno ci prova, ad arrivarti alla gola – e tu la spingi fuori – tu qui non puoi, le dici, tu qui non dovresti entrare. Non è posto per te.

E comunque, Complimenti vivissimi a chi ha fatto le case.

Complimenti a chi fa le case.

Complimenti.

Si sa che non tutte le case, non tutte le città, non tutte le terre, riescono col buco. La mia sì.

Un buco vertiginoso sta risucchiando ogni cosa. Ci sono i morti e si sapeva, lo sapevamo, che le braccia di Colapesce stavano per cedere.

Intanto asciugo le gocce e declamo versi di Ungaretti pensando che Brandon Lee non doveva morire sul set, che Milano è una dilettante rispetto a Catania in fatto di acquazzoni e che se Brandon Lee fosse vivo e vivesse a Catania e non a Milano – e penso che se fosse vivo potrebbe darsi benissimo che viva a Catania piuttosto che a Milano o New York o Kuala Lumpur o Kamčatka, non vedo perché no – non direbbe più quella frase poetica e stupida che ci piace tanto e per la quale lo ricordiamo. Non la direbbe. Perché ormai è chiaro a tutti che a Catania, avendo piovuto come sta piovendo da tre giorni, è un po’ come se avesse piovuto “per sempre”, una quantità d’acqua pari a ciò che potrebbe significare “per sempre” – dal che ne deriva che sì, “PUO’ PIOVERE PER SEMPRE”- ed è chiaro che noi tutti, anche se chiusi nelle nostre case in via di allagamento, ci sentiamo così, ora. Proprio ora. Come se dovesse piovere per sempre.

Comunque lo farò, vi parlerò presto di Bolaño e Bernhard, perché sono una che non si arrende a due sputacchiate di dio.

Ne scrivo con passione, di Bolaño e Bernhard, mentre li leggo. E nel prossimo post ve ne parlerò.

Intanto dalla bidonville è tutto.

Passo e chiudo.

Parte 2 (oggi)

Non riesco ancora a scrivere di Bolaño e Bernhard.

O meglio, ne ho scritto ma tengo tutto per me perché non so davvero a cosa serva portarvi in Messico o in Austria mentre la città in cui vivo va in frantumi.

Quello che è accaduto ieri a Catania, quello che forse accadrà domani e venerdì ma che è già accaduto prima di ieri e accadrà ancora dopo domani, serve a ricordarmi ineluttabilmente che la sorte di un essere umano è vincolata al luogo in cui nasce o si trova a vivere.


Di là dal consolatorio “ovunque tu sia, conta solo come vivi”, capisci che sei libero nella misura in cui puoi scegliere non solo come ma dove vivere (giacchè dove nascere non lo potremmo scegliere in nessun caso, anche se c’è chi direbbe – e non voglio contestare la possibilità – che abbiamo scelto ogni cosa prima di nascere, persino i nostri genitori).
Se io potessi scegliere, e in questa fase della mia vita davvero non posso – non posso molte cose ma soprattutto non posso scegliere dove vivere – non vivrei a Catania. La amo, questa città, e non consiglierei a nessuno di viverci. A nessuno. Non sempre si può avere chi, ciò che, si ama. E se c’è qualcuno che non capisce cosa significhi sono lieta per questo qualcuno: significa che non ha dovuto soffrire abbastanza da dirsi spezzato.


Tornando a quanto accaduto ieri a Catania: il modo in cui la città è rimasta spezzata, divorata dalla sua stessa – la nostra – sozzura vomitata dai tombini, mi ricorda che quelli come me, quelli che credono di poter sanare ogni ferita e salvare le cose votate alla rovina, hanno fallito. Abbiamo fallito. Io ho fallito. Quelli come me hanno fallito e nulla possono contro quelli che questa città, questa terra in generale, la vogliono franta e sfatta, capo chino ventre a terra bocca nel fango ginocchia sbucciate tra le crepe dell’asfalto. Non la vorrei così, noi non la vorremmo così, questa città, ma ho capito anni fa che io, che noi, non siamo niente. Non siamo i grandi, non siamo i potenti – e dico noi per dire di quelli che, come me, non hanno mai avuto la vocazione a comandare, impartire ordini, dettare le regole del gioco, dire agli altri di fare o non fare qualcosa, e come.

“L’arte della guerra” di Sun Tzu l’ho letto pure io – e ci mancherebbe, leggo qualsiasi cosa – ma non come devono averlo letto quelli che comandano – sempre che l’abbiano letto, ma ormai l’hanno letto tutti – per piegarlo alle nefandezze. L’ho letto, ricopiato, imparato a memoria e capito che no, mi dispiace ma non ce l’ho, la vocazione al comando, e sì, un po’ mi dispiace. Senza arroganza dico che mi dispiace che quelli come me non ce l’abbiano quasi mai, la vocazione al comando. Perché quelli che ce l’hanno questo talento, questa vocazione, sono gli stessi che hanno reso possibile che questa terra, ancora nel 2021, soffochi nella sua stessa merda.


Io scriverò, dipingerò, userò il corpo e la voce ma non ho idea di come tutto ciò che sono e che so fare possa sanare questo tipo di ferita. E posso volere molte cose, tutte bellissime e inutili, ma per quanto lo voglia, per quanto ci provi, concretamente non la costruirò mai da sola, questa rete. Faccio quel che posso. Ma, in questo volere, mi sento spesso sola.
Ripeto: non ho idea di come ciò che so fare possa sanare questo tipo di ferita ma sono certa che può sanarne altre. Se non lo fossi – ma lo sono – getterei la penna, tirerei lo sciacquone – sperando non si intasi e non vomiti le mie lordure – e smetterei di fare la sola cosa che, in questa vita – non so dire delle altre, dove quasi sempre mi immagino ballerina di burlesque o freak in qualche carrozzone circense – so fare bene.

Quello che so fare bene non salverà la mia città – c’è chi, migliore di me, ci ha già provato, e ha fallito – non salverà la mia terra, non salverà un popolo umiliato e offeso (da se stesso) da secoli. Ho smesso di volere le grandi azioni, le grandi rivoluzioni. Preferisco la piccola persona che ha il coraggio di dire aiutami, e poi si lascia aiutare.

Se avrò la possibilità lascerò ancora una volta la mia città, che amo, e, ancora una volta, andrò in frantumi. E sia.

A qualcuno capita di nascere ma nessuno sceglie dove nascere, chi o cosa amare. Sarò egoista ma questo è il tipo di egoismo che pretendo da me stessa per salvaguardare la possibilità di restare io, poter ancora dire di servire a qualcosa, a qualcuno che ha davvero bisogno di ciò che posso offrire.

E riconoscere che, anche se fa male, ci sono Persone – e Cose e Città e Terre – che non vogliono essere salvate.


“…splendida, geniale, sporca, volgare, affascinante, generosa, ingannatrice, urlante, maleducata, ladra, ridente, traditrice, non rassomiglia ad alcuna altra città al mondo.

Io che ti amai subito (…) un giorno o l’altro ti abbandonerò.

E subito non avrò più il mio cuore.

Ma domani, e anche dopodomani, voglio continuare a scrivere un madrigale per te”.


Giuseppe Fava (frammento dedicato a Catania), “I Siciliani”, 1980

Trentacinque. Chili di carta tra sommersi e salvati

Per il mio trentacinquesimo compleanno ho salvato qualche ricordo dal ventre sfatto di case che non abiterò mai più. Chili di carta e oggetti tra i sommersi.

Tra i salvati, alla rinfusa: Il corvo e la sua colonna sonora, il diario di una sfollata a Sarajevo, It, Jack Frusciante che pedala tra i colli bolognesi, il naso rosso di Miloud Oukili e i Randagi di Bucarest, Eric Fromm, Il libro dei sogni, Christiane F e i ragazzi dello zoo di Berlino. E poi Bowie, i Sex Pistols, tutto dei Cure e quasi tutto che ricordi gli anni ’80. E poi Julien Sorel, la prima volta di ogni cosa, la letteratura francese, Mary Shelley, Jeckyll e Hide, Rocky I, Rocky II e Rocky III (passi anche il IV, per fanatismo).

Ho dieci anni la prima volta che guardo “Il corvo”. Non so cosa significhino parole come stupro e violenza però le scrivo. Scrivo che “dei delinquenti hanno stuprato e violentato” (ridondante ma per amor di efficacia) Shelly Webster nella Notte del diavolo, che il suo fidanzato Eric è tornato dal mondo dei morti per vendicarla. Eric mi piace – mi piace come si veste, mi piace che sia tornato dal mondo dei morti, mi piace che sia un giustiziere – e scopro che Eric è Brandon Lee, e scopro che Brandon Lee è morto a tre giorni dalla fine delle riprese ucciso da una pistola che non era – avrebbe dovuto essere – caricata a salve. La storia di Eric e quella di Brandon si fondono e confondono nella mia mente di bambina: comincio a credere che tra finzione e realtà ci siano slittamenti e oscillazioni degne di nota. Scivolo da un piano all’altro e guardo il film molte altre volte. Quel film mi ossessiona, mi fa capire delle cose per via di emozione. Ossessione è anche una cosa che piace e disturba, della quale non puoi fare a meno. Devo liberarmi, così scrivo. Scrivo il riassunto del film su un vecchio quaderno. È così che faccio con i film che mi ossessionano: li riguardo, scrivo i riassunti, li riguardo.

Un po’ di numeri.

Tra i dieci e i quattordici anni riguardo “Il corvo” ventiquattro volte, credo.

Ho la videocassetta, poi il dvd masterizzato, poi il cd della colonna sonora ma lo perdo, poi il dvd originale e lo perdo.

L’ossessione di bambino contiene il germe della passione adulta? Da bambini non sappiamo – quando ripetiamo un gesto, una parola – che quel ripetere, insistere, amare e non stancarsi mai di qualcosa è già destino.

A dieci anni leggo “It”.

Quel nome che senza nominare dice tutto, contiene tutto. Ma il pagliaccio non fa paura: mi piace e mi disturba. Mi ossessiona. Mi convinco che le avventure di bambini siano una faccenda terribilmente seria. Resto abbacinata dalle pagine che King scrive sul rituale dell’amplesso di gruppo. Le sento addosso, mi fanno pulsare il sesso. Questo sì, fa paura. Il film censura questo ed altri rituali contenuti nel libro. Mi sento quasi sollevata.  

È il 1992 quando John Frusciante lascia i Red Hot Chili Peppers all’apice della popolarità. Uno scrittore ruba il fatto per il titolo del suo libro. È il 1999 e ho 13 anni quando leggo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enrico Brizzi. Leggo di Alex e Martino e mi viene il dubbio che morire sia un modo per uscire dalle cose.

Bologna, 1992. Alex D, diciassettenne figlio modello della buona borghesia, ci pensa ed esce anche lui dal gruppo, come John. Lui è Jack del titolo, cioè Jhon. Alex che rompe gli schemi – mi piace Alex, anche io voglio rompere le cose ma mi sento piccola e sciocca a desiderare cose del genere. Così mi limito a leggere. Alex pedala come un disperato sui colli, ascolta i Sex Pistols,  vede morire un amico, Martino. Io non sono Alex, penso. Sono Martino. Martino che non ce la fa più, Martino che si toglie la vita, Martino che scrive una lettera al suo migliore amico per dirgli cosa prova: anche lui voleva fare “un salto fuori dal cerchio”. Il salto più lungo è il per sempre del mai più. Alex fa una scelta diversa, continua a vivere e allora io sono come Alex: voglio vivere, penso che si possano rompere gli schemi pur restando vivi – aver letto aiuta – ma ancora non ho la stoffa di chi sa affermare la propria volontà, la propria personalità. Aver letto aiuta ma non è abbastanza.

1998. Vera, la professoressa di Italiano, mi regala il “Diario di Maja” di Nenad Velickovic, un libro rimasto con me per ventitre anni superando traslochi da sud a nord, da nord a sud nelle mie dodici – forse tredici, quindici, ho perso il conto – case.  Vagando, mi portavo dietro il romanzo di una sfollata. La guerra civile jugoslava e l’assedio di Sarajevo negli anni Novanta raccontato attraverso gli occhi di un’adolescente. La sua famiglia, insieme ad altri sfollati, si rifugia in un Museo di cui il padre è direttore e lì, al riparo dalle granate, questi corpi restano rinchiusi, in gabbia.

“Non possiamo uscire perché sopra c’è la guerra”, dice Maja cercando le ragioni di un conflitto che non comprende, divenuto ormai la normalità. Comincio a intuire anch’io, chiusa “sotto”, dentro una stanza, che “sopra”, fuori, c’è la “guerra”. Comincio a intuire che gli esseri umani sono pazzi e cattivi ma Maja è brillante e ironica, scherza su tutto, anche sulla tragedia, con delicatezza. C’è posto per la speranza quando si può ancora raccontare una storia, penso.

Arriva il 2000. Ho 14 anni quando partecipo all’assemblea d’istituto più importante della mia vita. Il classico va allo scentifico ad ascoltare Miloud Oukili, il clown che ha salvato i ragazzini romeni dalle fogne e dalla droga. Miloud racconta di quando è arrivato a Bucarest, nel 1992, tramite un’associazione francese di volontariato: non arriva per restare. Però perde un treno – fatalità –  e resta – desiderio segreto che preme. Alla fine dell’assemblea compro un libriccino che racconta la storia di Miloud: “Randagi”, si chiama. Lo divoro in lacrime, decisa a cambiare le sorti del genere umano. Inizio a preoccuparmi dei “randagi” di tutto il mondo. Sogno di partire per la Romania ma non ho un soldo. Mi sento misera e inutile, come solo un adolescente può sentirsi.

Chi sono i “Randagi”?

I bambini senza futuro, gli adolescenti con la faccia di bambini e le mani impastate di colla. Bestie, per tutti. Reietti. Miloud è l’adulto rimasto bambino e i bimbi sperduti di Bucarest li ascolta, ascolta le loro storie, vive con loro nelle fogne, visita i loro orfanotrofi sozzi. Regala loro una possibilità, un senso, uno scopo. I senza amore-senza scopo-senza futuro diventano membri dell’Associazione Parada. La carovana di clown autodidatti guidata dal naso rosso e le scarpe gialle taglia 50 di Miloud parte dalla Romania e fa il giro del mondo. I bimbi sperduti fanno vorticare in aria palline e birilli, alcuni sono bravi persino con i trampoli. Chi può dire la differenza tra un mestiere, un gioco e lo scopo di tutta una vita?

Chissenefrega, i ragazzi hanno una ragione per vivere.

Miloud li toglie dai sotterranei e li porta in superficie, sulla strada ma non quella sporca e violenta. La strada degli artisti, la casa mondo di chi fa arte. “Randagi” parla di esseri umani perduti, di una città senza speranza e della speranza che arriva in città.

“E’ così brutta che finisce per piacerti. E’ così desolata da prenderla per mano e starla a coccolare. Bucarest, per quanto assomigli ad un vecchio cappotto che vorresti cambiare, è abitata da ragazze che sembrano pallide fate, di nebbia e cannella, chiare come mezze lune, sottili e divorate dal vento. Sulle sue strade camminano uomini che nascondono nelle tasche sogni così accartocciati da sembrare inesistenti, è calpestata da gambe pesanti che hanno sempre marciato come un militare, ed è toccata e accarezzata da mani che non le sanno ancora dare piacere. E’ malconcia, pure un po’ abbrutita, ma sulle sue strade, lungo i suoi marciapiedi, tra le sue case e i suoi balconi, c’è l’aria di un temporale che non vuole passare, come se la gente si fosse attaccata alle nuvole per non permettere che il sole caschi per terra.”

Ho 16 anni quando rubo di nascosto “L’arte di amare” di Erich Fromm dalla scarna libreria di casa. Accanto ci sono Freud, “Il libro dei sogni”, e Christiane F: prendo anche quelli.

Freud lo leggo alla luce del giorno, Fromm e Christiane F li sfoglio di nascosto.

Leggo il libro e guardo il film sulla vita dei ragazzi dello zoo di Berlino. La colonna sonora di Bowie mi piace ma quel libro e quel film sono un pugno allo stomaco. Riascolto Bowie e divento fanatica degli anni ‘80.  Da allora e per sempre. Di nascosto da me stessa, la notte, apro qualche pagina a caso. Christiane F mi piace e mi disturba. Mi spaventa il potere e il fascino che quel libro esercita sulla mia mente. Le storie di Detlef, Babsi, Stella, Axel e gli altri mi sembra di conoscerle bene senza averle vissute. No, certo che le ho vissute. Potrei finire male, da un momento all’altro, se non sto attenta. Sempre vicina al collasso. Anche se non fumo e non tocco alcol, a differenza dei miei compagni, sono più prossima all’abisso di quanto loro potranno mai esserlo. Sono io, il mio buco nero. Mi spaventa l’idea di perdere il controllo. No, mi atterrisce la paura di essere scoperta e punita ma vorrei perdere il controllo. No, ho perso il controllo nell’istante in cui ho aperto quel libro. Non si torna indietro da certi libri.

Allora leggo Stendhal e finisco per perdere il controllo. Il rosso e il nero, un’idea precisa di amore, e da lì tutti i classici della letteratura francese. Balzac e la commedia umana per sempre, Hugo e l’uomo che ride, Hugo e i miserabili per sempre. Ma anche gli scapigliati, la dannazione di Fosca e ogni piccola cosa scritta da Tarchetti. Ambizioni, cinismo, ipocrisia. L’amore e l’amoralità di Julien Sorel mi rivelano tutta la verità nient’altro che la verità definitiva sugli esseri umani. Passione e morte. Rosso e nero. Ai tempi ero innamorata, senza speranza di essere ricambiata, di un milanista sfegatato. Ma questa è un’altra storia. Però c’entra, forse. Tutto è connesso. L’amore è passione e morte.

Per amare devo morire d’amore? Una vita difficile ma intensa. Entro nella mente di Julien Sorel. Je suis Julien Sorel. E sono anche Madame de Rênal, e Mathilde. Posso essere amante e amata, posso essere una cinica arrivista, una nobildonna innamorata, finire in prigione, essere uccisa.

Stendhal è un fiume in piena, non mi lascia il tempo di dormire.

Quando, poco dopo, incontro Mary Shelley piango per la creatura e capisco le ragioni del creatore, quando resto sola con Jekyll non gli dico quello che Hide mi confessa. Sotto sotto mi piace Hide e mi piace fingere di giocare a fare Dio. A chi non piace?

Capisco che la vita è dolore e quando me ne accorgo l’adolescenza è finita da un pezzo e forse è colpa dei libri se ho perso la verginità. Non parlo del sesso ma di aver letto parole che mi rivelavano con onestà quello che tutti gli esseri umani tentavano di nascondermi con ipocrisia.

L’ambiguità tra bene e male è la frattura che si consuma in ogni essere umano. Ogni persona si studiava di nascondermi la verità, i libri mi dicevano tutto ciò che avrei dovuto sapere, mi preparavano all’umano errore.

Poco dopo avrei iniziato a sperimentare tutto questo nella vita, nelle persone.

Decisi che non sarei rimasta sotto, non sarei rimasta dentro, non sarei affogata nel mio stesso buco nero. Avrei fatto come Alex, come Maja, come Il corvo col coraggio di chi fa parte da sempre del club dei perdenti e, quando il gioco si fa duro, non scappa e prova a uccidere il mostro.

Fonte immagine di copertina: https://leganerd.com/2018/06/04/il-corvo-jason-momoa-abbandona-il-progetto-e-si-scusa-con-i-fan/

Tutte le immagini sono attinte dal web.

Guarire non è la soluzione

Per anni ho ascoltato le parole di chi dà buoni consigli perché non può dare il cattivo esempio.

Poi capisci, e smetti di dar credito a chi finge di interessarsi alla tua sorte quando nei fatti, guardandoti, non riesce ad accettare il mondo che porti. Avida di capire le cose del mondo, disimparavo la mia verità. Ma tutto è stato necessario per arrivar fin qui. Semplificando moltissimo, guru e santoni dicono che ci si ammala per attirare l’attenzione, perché si cerca amore. Sono d’accordo con guru e santoni. Poi però bisognerebbe indagare, capire cosa significhi per il singolo individuo la parola “amore”. Perché quando usiamo una parola come “amore” – ormai trita per il suo esser abusata, ormai così generica – non intendiamo tutti la stessa cosa. Rispetto? Accettazione? Cura? Gratificazione? E via di seguito. La lista di possibili potrebbe estendersi all’infinito. E poi, accettazione e rispetto da chi? Dal partner? Dalla madre e dal padre? Dal mondo intero? Da chi si vuole ottenere ciò che si desidera con tanto ardore?

Cosa intendo io per amore? Quando, a diciannove anni, una notte di luglio alle colonne di San Lorenzo, il mio compagno di allora – quello degli amori romantici che ti pugnalano alle spalle e servono a soffrire come si deve e farsi lo scudo – me lo chiese: “rispetto”, risposi. Quindici anni dopo, la mia risposta non è cambiata. Rispetto è un composto di re- “indietro” e spicio, verbo che in latino significa “osservare”, “guardare”. Ed è questo sguardo che sa penetrare il valore, uno sguardo che senza sapere il prima e il dopo di un’anima sa intuirlo, non insozzarne il colore. Il rispetto di cui parlo – quello che non bisognerebbe chiedere, ché il doverlo chiedere già ne avvilisce il senso – è la capacità dell’altro di accogliere l’immagine che io gli offro, non quella che l’altro sceglie per me. Non si può pretendere da chiunque lo stesso grado di sensibilità e acutezza. Così ci si stanca della pantomima e si sceglie di non offrirsi alle persone. E si è anche abbastanza intelligenti e consapevoli da non fargliene una colpa. Quello che vedete di una persona quando vi si para innanzi, corpo e respiro, è solo una presenza simulacrale, una forma possibile, una proiezione che costruite addosso a quell’essere umano filtrandola sulla base del vostro vissuto: quello che vedete di una persona è quello che siete, non ciò che quella persona è. Specialmente quando notate, di quella persona, qualcosa che non vi garba o addirittura vi infastidisce. Bisognerebbe chiedersi sempre: cosa c’è che non vedo?

Questa incomprensione di fondo nelle relazioni umane per me è disumana e mi fa soffrire.

Ciò che io sono non è ciò che sono e di cui non posso liberarmi – questo corpo questi occhi questo respiro – tutto ciò che vi si para innanzi quando mi guardate. Ciò che sono è il modo in cui io scelgo liberamente di proiettarmi, anche mentendo, nelle mie parole, nei miei disegni, nei miei sogni e nei miei incubi. Ma come puoi far comprendere una frase del genere a chi sgrana gli occhi e non capisce il senso di queste parole? L’arte per la quale una persona sputa sangue all’angolo dei perdenti, spesso alle corde, senza mai gettare la spugna è la vita della quale quella persona non può fare a meno: una vita che continuamente si esprime nel balzo oltre il reale ed esiste SOLO nella misura in cui lo trasfigura, questo reale. Il punto è che per certe persone tutto questo è futile, inessenziale, ridicolo, vale meno di zero, e a parlarne come di vita vera si fa la figura del giullare a corte. Mentre per me questa trasfigurazione, questa tana del bianconiglio non è una menzogna, non è un divertissement bensì la sola realtà cui riesco ancora a dare credito. Ed è la sola realtà perché è quella che scelgo. Perché ciò su cui, di me, non ho avuto alcuna voce in capitolo non è la mia verità. Io esisto nella misura in cui mi sogno e mi desidero, e solo in quella forma di sogno e desiderio.

Nascere è solo un accidente, qualcosa che capita e tu non puoi farci niente. E non è detto che la cosa ti piaccia. Magari non è l’abito che avresti scelto per te. Certo che esisto per come mi vedete camminare per strada o mangiare un piatto di pasta al sugo, mio malgrado. Ma lì mi sento inadatta e per me quell’azione vale meno di zero. Se volete sapere chi sono leggete le mie parole, guardate i miei disegni, fidatevi del balzo oltre il reale che vi propongo. Tutto il resto è artificio. Non dico che non ci sia del vero: con l’esperienza del vivere, con la pratica obbligata, qualcosa si riesce sempre ad apprendere e salvaguardare. Ma tutte le volte che si apre la porta della stanza e si esce da se stessi si perde in onestà e libertà. Siamo quello che siamo nelle nostre solitudini.

Quando si prova a tradurre in vita, al cospetto degli altri, l’integrità di questa verità che si nutre di silenzi non si può che fare una triste figura. Dovendo scegliere, scelgo di aderire ai miei simulacri, alle proiezioni che io creo di me stessa, non a quelle degli altri. Se le ho create, queste immagini di sogno, se le ho fatte esistere, significa che per me hanno valore. Ma se queste immagini che io propongo non vengono accettate, se vengono derise, respinte o ignorate, è naturale che, tornando al punto iniziale, la guarigione non può esistere. La malattia diventa cronica e bisogna limitare i danni restando a contatto con quei pochi esseri umani che mostrano di capire, e rispettare. In ciò che scrivo, nell’arte che creo si consuma tutto ciò che, di me, ai miei occhi ha peso e valore. Questa è la mia malattia. E non sono di quei malati che non vogliono guarire. Ce l’ho messa tutta. Ma, alle volte, questo gioco non vale la candela.

Guarire non sempre è la soluzione.

Alle volte, bisogna convivere con la propria malattia. E accettare che in questo essere in lotta con se stessi non c’è nulla di male.

Ph. Carmine Prestipino

Lettera a E. D.

Cara Emily,

ti scrivo per diletto e per schiantare il colore perché la solitudine è la tela sulla quale abbiamo reciso, incidendolo, qualche ramo storto, il petalo di un fiore. Nasciamo pagina bianca, subito viene il Nome, nostro malgrado. E tutte le vite che manchiamo ci cadono addosso come volti, come storie. Proviamo a farne qualcosa per non soccombere al pensiero di essere solo un Io.

Tu. Io. Sole.

Tu sai che ci sono silenzi che è meglio non dire, non sta bene. Io sono uno di quelli, mi piace troppo spesso abbandonarmi al suono di chi sogna e non vive o, vivendo, si consuma nella tentazione di cadere, di svanire.

Come può il silenzio fare tanto rumore?

Da qualche tempo mi sono trasferita in campagna: il mio silenzio partecipa dei suoi umori. Stamane, camminando per boschi, ho colto da terra una grande foglia secca e gialla, con venature rosse in rilievo. L’ho portata a casa, non meritava di essere calpestata. Ma in fondo quello era il suo destino.

Come si fa a ricomporre il senso di un evento mentre lo si vive?

Quando ho poggiato la foglia sul tavolo, la finestra era aperta e un vento gelido l’ha sollevata: l’ho vista scivolare via, cadere senza far rumore.

Un istante dopo, un uomo qualunque vestito di blu ci camminava sopra.

Se si spezza la misura del tempo, presto saremo sorelle.

Ti porto nel cuore,

M.

Venti. Cercare, lasciar andare

Se hai bisogno di cercarlo, significa che l’hai già perduto.

***

Si resta bambini solo per riconquistare il maltolto.

***

Non avremo perduto tutto finché non avremo smesso d’immaginarlo.

***

Città. Frale,

malsicuro ostello dei paria,

diseredati, Sradicati,

per destino, per scelta.

Smaniose di ‘Esserci’, mille e più Voci s’affollano. Non una che si oda davvero.

Qui, a mia Voce eleggo

il Silenzio. Vessato, invilito, sopraffatto,

Oggi, da bercianti rimbrotti, Domani sarà il grido che schianterà

il vostro cuore.

***

La bontà cieca è

stupidità.

In un cuore che si lascia attraversare, la gentilezza a prescindere, a proprio discapito,

quella gentilezza, dico, che il beneficato non ha gli strumenti per leggere,

vedere o, vieppiù, della quale si prende gioco,

è un grido di umanità violata rotto dal dolore.

Perniciosa per l’animo di chi la concede, inutile per chi (non) la riceve.

Il valore di un gesto, di una parola, nella polifonia del dialogo, esiste solo se è compreso.

Altrimenti, resta un monologo vacuo.

Altrimenti, quel valore esiste solo per chi lo muove.

Ed è nella solitudine che va cullato, protetto, per non smarrirsi,

non essere contaminato dalla cecità o dalla malagrazia altrui,

per non avvilirsi a tal segno da non volersi,

da non cercarsi più.

Abbiate cura di voi, durante il cammino.

Voltatevi indietro per ringraziare coloro dai quali vi siete lasciati ferire e poi

strappate la pagina

leccatela

sputatele addosso e

lasciatela andare.

In copertina: foto di Carmine Fotografie

Natale è tenere insieme i pezzi

È Natale. Provo a tenere insieme i pezzi di una famiglia che non esiste.

Mia sorella, pur di non vivere sotto lo stesso tetto con mia madre, dopo il liceo ha messo da parte l’idea di studiare e si è trovata un lavoro full time come cameriera. Full time, in gergo, da queste parti significa almeno dodici ore al giorno. È talmente brava e motivata che l’hanno assunta con regolare contratto. Al sud, cose da pazzi! Ora vive in centro città, paga l’affitto di una casa in cui torna solo per dormire e, siccome sono tempi duri, rinuncia al giorno di ferie. È felice, dice. Ed io le credo, nonostante veda il suo volto di diciannovenne consumarsi anzitempo dietro abili pennellate di rosso sulle labbra, capelli lisci come fili d’oro sempre freschi di piastra, il sorriso largo e gli occhi piccoli piccoli di pianto nascosto. È orgogliosa. Le credo perché, come me molti anni or sono, si è tolta quel peso: vivere sotto lo stesso tetto con mia madre. Quindici anni fa, pur di non vivere sotto lo stesso tetto con mia madre, volai a millequattrocento chilometri di distanza. Millequattrocento. Un pò plateale, lo ammetto. Ma solo le figlie di mia madre possono capire. E siamo solo in due. Gli altri, si limitano ad intuire.

Mia madre è sola. Non perchè qualcuno l’abbia lasciata sola, cosa che nei fatti è accaduta. Mia madre è invincibilmente e ineluttabilmente sola. Qualcosa le è rimasto impigliato nel cuore in un tempo del quale non ho contezza. Qualcosa del quale non riesce, non sa e non vuole liberarsi. Qualcosa, l’ha resa la donna arrabbiata e diffidente che ho imparato a conoscere. Qualcosa che, nonostante tutto, ho il terrore che alla lunga finisca per toccare anche me. Non è forse questa la paura più grande di certi figli? No, io non sarò mai come mia madre, non sarò mai come mio padre. Non commetterò gli stessi errori.

Mia madre si comporta come se tutto il mondo fosse orribile. Tutto. Si lamenta. Si lamenta sempre. Si lamenta di tutto. Anche questa pandemia per lei è un complotto del mondo nei suoi confronti. Eppure domani è Natale. E la famiglia che mia madre ha lottato per costruire con rudimenti d’amore parentale scarsissimi (i miei nonni erano genitori tutt’altro che innamorati, tutt’altro che genitori) e con ferri arrugginiti agguantati a caro prezzo dagli sconosciuti – questa famiglia, dico, la nostra famiglia – non esiste.

Tu sei sempre stata buona di carattere, tua sorella ha qualcosa che non va, ama ripetere mia madre, anche in presenza di mia sorella. Mia sorella non mi odia per questo, almeno spero, ma certo non dev’essere stato facile, mentre ero lontana, crescere con una madre che le ripeteva di non valere niente. Tranquilla, la rassicuro, lo diceva anche a me quando avevo la tua età. Abbi pazienza ancora una quindicina d’anni: non cambierà opinione ma si stancherà di dirlo. In realtà, mento: mia madre è un’instancabile insoddisfatta e non perde mai occasione di ricordarti che non sei o non fai abbastanza. Io non penso affatto che mia madre sia cattiva, ha solo sbagliato “mestiere”, se così si può dire. In un mondo ideale la smetteremo di pensare che “essere madre” è la “vocazione naturale” di ogni donna. Non qui, non ancora. Ci stiamo lavorando. Penso invece che mia madre fosse una bravissima ballerina: da bambina restavo sedotta guardandola esercitarsi in sala prove; quelli in cui danzava, stretta nel suo body colorato e nei pantacollant anni ottanta, erano i momenti in cui la vedevo sempre sinceramente felice. Penso che avrebbe dovuto continuare su quella strada e poi magari insegnare, aprirsi una scuola di danza tutta sua: mia madre ha anche la naturale vocazione ad essere “capo”, a organizzare le cose, a far quadrare i conti; in casa lo ha sempre fatto in maniera straordinaria. Penso che avrebbe dovuto credere di più in sé stessa e sono quasi certa che non abbia avuto accanto qualcuno che credesse abbastanza in lei, abbastanza da ripeterglielo e persuaderla. Nella vita si salvano solo coloro che hanno la fortuna di trovare uno o più “aiutanti”. Non dico tanto per dire, l’ho imparato di recente. Soli, non siamo niente. Soli, non possiamo farcela.

Il punto è che domani è Natale e io sono quella buona. Se la morte non santifica nessuno, il Natale forse sì, mi dico. Quando mia madre morirà non smetterò di pensare a tutto il bene e a tutto il “male” che ci ha fatto. Con quel carico di rancore verso non so chi e non so cosa rigettato su di noi, con i suoi che schifo, vergognati, non stai bene, sei orribile, sei cattiva. Ma oggi, pensare a mia madre sola in una casa gelida (lo è davvero, gelida) il giorno di Natale mi spezza: non so se sia vera bontà o solo egoismo, prova certa della mia difficoltà di ignorare il lamento di chi mi rinfaccia di essere la causa del suo dolore.

Mi avete lasciato sola. Sono vostra madre e mi avete lasciato sola.

No, vorrei dirle, Tu ti sei lasciata sola.

Ogni tanto mi chiedo come sarà da vecchia. Penso che avrà ancora forza da vendere per sfiancarci. Penso che potrebbe persino sopravvivermi. Sì, è talmente agguerrita che potrebbe sopravvivermi. Ogni tanto mi chiedo come io sarò da vecchia. Se mai ci arriverò, ad essere vecchia. Qualche traguardo l’ho raggiunto eppure di fronte a lei mi sento ancora una nullità. Domani mi sentirò una nullità ma tutto questo, almeno per domani, non conta. Domani è Natale.

Provo a tenere insieme i pezzi di una famiglia che non esiste. Ma forse, da inguaribile romantica, il cuore combatte con la ragione e dice che c’è ancora speranza. Ho visto mia madre sorridere felice e soddisfatta, tanto tempo fa, in quella sala prove. Forse può succedere ancora. Forse c’è ancora tempo per rimettere insieme i pezzi.

Un giorno queste tre donne – una madre e due figlie, tutto ciò che resta di una famiglia mai esistita – si ritroveranno insieme e questa famiglia esisterà. Se tutto va bene, sarò ancora qui per vederla.

Guida pratica alle illusioni consapevoli. Una lista approssimativa

C’è stato un tempo in cui ho amato, più degli uomini, le parole. Mi rifugiavo tra le pagine come chi, ferito, battuto, riposa sulle disiate prode per proteggersi dall’assedio della vita. Vivevo quello che potrei definire “il duro tirocinio dell’autocoscienza che prepara alla vita”. E’ stato un tempo necessario per andare a fondo, guardare in faccia i miei demoni e risalire in superficie. Vittoriosa perché li ho accolti. Perché, oggi, so riconoscerli e dialogarli.

Amo gli esseri umani capaci di trasfigurare e rendere straordinaria la quotidianità. E forse, più della vita, amo le infinite possibilità che essa apre: quelle del pensiero, delle idee, e, naturalmente, del sogno.

Una volta mio padre mi disse: “ti sei costruita un mondo tutto tuo perché questo non ti piace abbastanza. Si vede che ti sta stretto, non ci stai bene”. Mio padre non è mai stato un gran lettore ma è un grande maestro di sensibilità e onestà dello sguardo. Il MIO maestro.

Credere che una pagina, mentre si scrive, si faccia vita: questa la mia fede incrollabile, senza la quale non sarei qui a pigiare tasti sulla tastiera e credere e sperare e sognare ancora mentre il mondo si logora e va in frantumi sotto il peso di rabbia, sconforto, disillusione. La sua, la mia. Che poi è lo stesso.

Se hai un desiderio, tienitelo stretto, non mollare la presa. Lo scrivo ogni giorno, più volte al giorno, per non dimenticarlo, per non perderlo. 

E voglio, anzi, esigo che questa penna sanguini fino ad esaudire ogni mio più recondito desiderio.

Mentre scrivo, ripenso alle parole di Anna Maria Ortese:

“La tragedia della mia vita (…) fu dunque nello scoprire quasi subito che tutte le cose – anche persone, volti, libri – erano vuoto e apparenza, erano immagini, la cui materialità e libertà erano tutte illusorie. Una sola cosa viveva veramente: il dolore e l’emozione dolorosa (metto fra queste emozioni anche l’amore e la gioia). Ben presto, dunque, io mi trovai a dovermi battere per una cosa – la vita – che era un abisso e una perdita. Lo sapevo, ma ciò non toglieva che dovevo battermi.” (A. M. Ortese, Corpo celeste)

E subito, in un dialogo inconsapevole, arriva il solito Cioran a controbattere:

“…distacco dal frutto dell’atto (…) colui che ne fosse veramente compenetrato non avrebbe più nulla da compiere, perché sarebbe giunto alla sola condizione estrema che valga, alla verità che annulla tutte le altre, denunciate come vuote, essendo d’altronde vuota essa stessa – ma di un vuoto cosciente di sé. (…) Quando si raggiunge questa verità limite, si comincia a fare una triste figura nella storia, che coincide con l’insieme delle verità d’errore, verità dinamiche il cui principio è, necessariamente, l’illusione. I risvegliati, i disingannati, inevitabilmente debilitati, non possono essere centro di avvenimenti, per la ragione che ne hanno intravisto l’inanità.” (E. M. Cioran, Squartamento)

Ed io, fiera di annoverarmi tra i “risvegliati, i disingannati”, consapevole dell’illusione, mi ritrovo a correre impazzita da una parte all’altra per decidere se battermi o ritirarmi. Corro. Salto. Mi dimeno. Oscillo tra sferzate di consapevolezza che mi intimano di paralizzarmi e cocci di sogno nascosti ovunque – sotto il cuscino, dentro i cassetti, ovunque, nascosti da me a mia insaputa, immagino – che, danzando, mi persuadono a seguirli. E si sa che le seduzioni valgono più degli ammonimenti.

Ci sono libri che mi hanno offerto una porta d’accesso privilegiata alla consapevolezza, necessaria anche quando dolorosa. Leggerli non mi ha impedito di sognare: ha solo offerto una via più solida  e concreta verso il sogno. Concreta, solida perché non ingenua.

Caduta l’illusione, non batto in ritirata: sono ancora qui che “perdo tempo” a sognare.

In un tempo, questo tempo, dove ci si dibatte tra gridare o sparire, voglio condividere una lista di libri (che a malapena si avvicina a quella completa) che, se li si lascia entrare, possono cambiare per sempre la percezione di noi stessi nel mondo e dischiudere infinite possibilità di sogno.

  • E. Cioran, La caduta nel tempo
  • E. Cioran, Sommario di decomposizione
  • E. Cioran, Un apolide metafisico
  • E. Cioran, Quaderni
  • C. Pavese, Il mestiere di vivere
  • D. La Rochelle, Memorie di Dirk Raspe
  • V. Woolf, Diario di una scrittrice
  • V. Woolf, Una stanza tutta per sè
  • Nin, Diari I, II, III, IV, V
  • A. Nin, Henry & June
  • R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso
  • H. Taine, Etienne Mayran
  • G. Papini, Un uomo finito
  • Camus, Il mito di Sisifo
  • S. De Beauvoir, L’età forte
  • S. De Beauvoir, Una morte dolcissima
  • S. Weil – J. Bousquet, Corrispondenza
  • J. Bousquet, Tradotto dal silenzio
  • D. La Rochelle, Fuoco fatuo
  • J.K. Huysmans, A ritroso
  • E. Jabes, Il libro della sovversione non sospetta
  • E. Jabes, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato
  • G. Manganelli, L’isola pianeta
  • F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo
  • F. Dostoevskij, La mite
  • J. P. Sartre, La nausea
  • J. P. Sartre, Le parole
  • J. Berger, Sul guardare
  • F. Nietzsche, Umano troppo umano
  • E. Flaiano, La solitudine del satiro
  • A. Gorz, Lettera a D.
  • G. Bufalino, L’uomo invaso
  • M. Shelley, Frankenstein
  • A. M. Ortese, Corpo celeste
  • E. Vittorini, Conversazione in Sicilia
  • H. D. Thoreau, Walden
  • A. Dumas, La signoria delle camelie
  • I. Calvino, Lezioni Americane
  • I. Calvino, Gli amori difficili

In copertina: Il Mondo (acrilico, tempera e pastello su carta, 50×70)