Quando ho viaggiato, non ho soltanto scritto. Qui ero a Cordoba, in Andalusia.
Dov’è Cordova, direte? Negli occhi, nei miei, forse.
Ho scoperto di essere una creatura creatrice, proteiforme, e in che misura capace in termini di bellezza. Queste creature, realizzate con queste mani, oggi chiedono ancora di vivere. Queste mani hanno ancora colore.
Chiedete di più alle vostre mani. Chiedetelo davvero. Vi sapranno ricompensare.
“Ma se un tormento viene tenuto temporaneamente lontano, non si può dire che abbia cessato di esistere; è presente persino nella cura con cui si cerca di evitarlo”.
Voglio procedere a passi ampi ed intentati nel mio destino. Tracciare un sentiero inesplorato. Potrei contraddirmi, smentirmi. Non ho un’anima, ma mille. Lasciatemi essere le mie moltiloquenti sfumature, le mie policromatiche fantasmagorie. Preferisco mille volte il dubbio, lo scoramento, questo cuore in disequilibrio, l’inquietudine.
C’è molta più vita in un sogno frustrato, in un angelo caduto.
Su ogni chimera vanita, cade il silenzio. Ma da quel “voler essere”, da quel “sognare di più” così umano, troppo umano, si leva un grido di prometeico orgoglio.
Un giorno, mentre dormivo, il Mondo andò in frantumi. Ecco cosa feci, dei miei cocci.
Il Mondo (acrilico, tempera e pastello su carta, 50×70)
“somewhere I have never travelled, gladly beyond any experience, your eyes have their silence: in your most frail gesture are things which enclose me, or which I cannot touch because they are too near
your slightest look easily will unclose me though I have closed myself as fingers, you always open petal by petal myself as Spring opens (touching skillfully, mysteriously) her first rose”
Tra le mie più grandi fortune, quella di essere una sradicata. Quel dolore primigenio, tra solitudine e spaesamento, che il volgere del tempo ha mutato in ardente e febbrile anelito di libertà.
Libertà di sentirmi, di volta in volta, straniera e “a casa” ovunque.
Ecco perché, quale che sia la destinazione o la distanza,
il Viaggio.
Quest’inesausta bramosia muove dalla coscienza che Casa altro non è che uno stato d’animo,
un Volto,
la Pagina che ho amato di più.
Esule senza rimpianto, porto con orgoglio le vestigia di un passato che non dimentico.
Che poi è come dire, di ogni dove, imparare a godere la bellezza: foss’anche per un istante, quanto basta per cogliervi una sfumatura, un’affinità, capace di restituire quel senso di “dimora perduta”.
“Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.
(…)
Se volete incontrarmi,
cercatemi dove non mi trovo.
Non so indicarvi altro luogo.”
(Giorgio Caproni, Biglietto lasciato prima di non andar via – Il Franco cacciatore, 1982)
In Cammino. Lei (schizzo, carboncino su carta 15×20)
In Cammino. Lui (schizzo, carboncino su carta 15×20)
Anime Erranti (schizzo, carboncino su carta 15×20)
“Ho lasciato una terra che non era la mia, per un’altra che neppure lo è. Mi sono rifugiato in un vocabolo d’inchiostro, avendo, come spazio, il libro; parola di nessun luogo, essendo quella oscura del deserto. Non mi sono coperto, la notte. Non mi sono protetto dal sole. Ho camminato nudo. Da dove venissi, non aveva più importanza. Dove mi recassi, non interessava a nessuno. Vento, vi dico, vento. E un po’ di sabbia nel vento.”
Edmond Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato
Ogni forma di divertimento, o distrazione, è una diversione dall’essenziale, un modo per sottrarsi al pensiero di ciò che siamo.
Uscire da noi, arruolare corpo e mente nell’affannoso commercio col mondo. Non si può farne a meno.
In Aspettando Godot, Beckett fa dire a Estragone: “Troviamo sempre qualcosa vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?” Barattiamo il Tempo con “qualcosa da fare”,
rincorriamo chimere,
fiacchiamo e disperdiamo noi stessi in una moltitudine di attività che ci danno l’illusione di EsserCi.
Eterno sollazzo dell’uomo stanco di fermarsi, pensarsi.
Ché, talvolta, “stare”, chiede più fiato, più coraggio. In ogni luogo, in ogni tempo, la dignità del nostro essere uomini si manifesta lontano dal tripudio della festa. E’ nell’angusto spazio delle nostre stanze che riveliamo la verità di ciò che siamo.
Siamo realmente ciò che riusciamo ad essere nelle nostre solitudini.
Il resto, è una fanfara che imbastiamo per la piazza.
“Tutta l’infelicità degli uomini proviene (…) dal non saper restare tranquilli in una camera” (B. Pascal, Pensieri)
Eppure, così distante dalla – eppure così simile alla – morte, anche la festa ha le sue ragioni: rammenta l’infinito possibile impigliato in carne e sangue e fibre; e che la carne, essa pure, ha diritto di gridare, saziarsi al banchetto delle vanità esplose.