Voglio essere per te buio, lama, rifugio e pertugio e ridare dignità al buco, rivendicare la bellezza dell’infimo poro per questo suo gettarsi sconsiderato e coraggioso sulle cose e ubriacarsi, e risucchiarle, non temere di lasciarsi attraversare. Per te voglio essere tempesta e cura, cacatoio dei tuoi scompensi e ripensamenti, delle tue ruminazioni, bettola di periferia sempre aperta per le tue notti insonni e luminosissime e voglio che tu sia, per me, il murales imbrattato sui vagoni del treno e il graffitaro di quartiere con la bomboletta sempre in mano e voglio che tu sia per me la bomboletta, la battuta, la bestia, la bontà, il bastone, la carota, e pure il coniglio, karma implacabile e carnefice della mia disonestà, di tutte le cangianti bugie su me stessa. Voglio poterti dire che le lasagne le cucini male solo perché sono la sola cosa che mi riesce bene e voglio che tu mi dica ogni giorno che “questo” lo so fare – perché dirlo ti riesce bene – proprio come so fare le lasagne, cioè bene, perché “questo” è la sola cosa che so fare bene anche se devo dire che ultimamente non me la cavo male nemmeno con l’insalata e la pizza surgelata, e chissà quante altre cose. Si vedrà. Voglio essere per te quella cosa su cui si conta e che si spera – come il regalo a Natale o la paghetta settimanale per comprare le figurine e le gelees, quando sei bambino – quella cosa che non è possibile contare, tanto è vasta costellazione, composta di cose più piccole senza nome, quella cosa che non sa contare: sai che contare – tenere il conto, i numeri, cose del genere – è ciò che mi riesce peggio (anche se, quando mi riesce, tiro un sospiro di sollievo) insieme a cucinare qualsiasi cosa che non sia la lasagna al microonde, con la scusa che al forno non si può fare: il forno c’è, infatti, ma non funziona. Come me. Ma diverso da me perché il forno almeno è una certezza dal momento che non ha mai funzionato, fin dal primo momento. Io invece capita che funzioni piuttosto bene e quelli sono giorni meravigliosi, come quando hai la connessione wi-fi Super Fibra e usi tre pc contemporaneamente modalità NASA senza paura di perdere i dati, un’ottima connessione insomma, non come quella tra me e il mondo che, quella invece, funziona male perché le cose per me non sono proprio cose ma direi piuttosto rumori ronzii raptus e rosicchiamenti, interferenze in sottofondo, come quella zanzara che si è infilata tra le nostre lenzuola e non è mai uscita: si è infilata per restare, dice. Come dici tu, con la stessa insistenza ma senza fare tutto ‘sto maledetto rumore. Cosa volevo dirti ancora? Che il tonfo dell’albero che cade nella pineta mi ha resa triste, mi rende triste sapere che una cosa muore, come mi rendono triste i rumori sordi o quelli acuti, lo stridere, il crack, il boom, il boato e l’eco che producono le persone quando hanno paura o vogliono farmi paura, con le loro parole, il loro rumore nella mia testa. E ci fossero solo loro, non sarebbe poi così male, invece ci sono anche Io che ho paura, e poi quell’altra Io che mi fa paura, e poi ci sei Tu che fai paura in un modo assurdo e divertente, come uno che apre la porta fischiettando mentre stai pisciando, luoghi concessi solo all’intimità di conoscere l’infelicità dell’altro, il buco limaccioso in cui puoi infilare le dita pensando fosse miele e – oh, cazzo! – invece è scarto, buccia di banana, organico putrescente, ferita saldata con lacca urushi e polvere d’oro. Opera di fine artigianato. Ecco cosa voglio essere per te, materia che salda, parola che perde, che cola da ogni lato, parola inconclusa di cui riesco a vedere la lettera iniziale. Una “C”.
Una “C” senza Madre. E non c’è niente di male ad avere un grembo inservibile che si rifiuta di generare. Non c’è niente di male ad avere una “C” senza essere Madre. Uno può benissimo avere una “C” dentro e perderla, a me è capitato e dico che no, non capita solo alle Madri. Questa cosa la può capire bene uno che magari non conosce tutti i significati delle parole ma riconosce i suoni, tutti i suoni. E quando ti restano solo grafemi, unità minime di cose, frammenti inconcludenti di parole senza futuro, riconoscere il suono – tonfo, battito, crack, boom, il boato e l’eco – e separarlo dalle cose che hanno perso il nome e pure esistono nella tua mente, può essere la salvezza. La speranza.
Eccola, la parola sciocca che cercavo, quella che attraversa il buio e il pertugio, diventa lama e rifugio, tutte cose che voglio essere per te: attesa silenziosa e coraggiosa di ciò che abbiamo sempre desiderato.