Parte 1 (ieri)
Volevo scrivere di Bolaño e Bernhard ma Catania si sta inabissando sotto litri di pioggia.
Avrei voluto parlarvi di Roberto Bolaño e Thomas Bernhard, dello stupore di scoprire a più di trent’anni due autori che sono colossi della letteratura mondiale e che ancora molti lettori – e tra questi lettori c’ero io fino a qualche mese fa – non conoscono. L’ironia pungente di una voce unica, miseria fango sesso libero e bordelli mescolati con garbo nel cielo tutto Messico e nuvole immagini di sogno che ci perdono in parole come ragnatele e vomiti cristallizzati circuiti ossessivi e un ritmo forsennato, implacabile.
Uno stile straordinario, questi due folli.
Avrei voluto scrivere di tutto questo ma Catania si sta inabissando sotto litri di pioggia e, in momenti in cui devi sollevare la gonna fin sopra le mutande – per fortuna ultimamente non porto la gonna, non porto nemmeno le mutande ma comode tute sportive – devi preoccuparti di cose meno nobili, per così dire, meno alte. Più terra terra – che è dove finisce la tua anima quando ti preoccupi per cose quotidiane, cosiddette essenziali, cosiddette minimo sindacale per una vita civile e ti senti l’acqua alla gola. Non di solo pane si vive, e uno ci prova.
Finchè poi non ti entra l’acqua in casa – o almeno ci prova, ad arrivarti alla gola – e tu la spingi fuori – tu qui non puoi, le dici, tu qui non dovresti entrare. Non è posto per te.
E comunque, Complimenti vivissimi a chi ha fatto le case.
Complimenti a chi fa le case.
Complimenti.
Si sa che non tutte le case, non tutte le città, non tutte le terre, riescono col buco. La mia sì.
Un buco vertiginoso sta risucchiando ogni cosa. Ci sono i morti e si sapeva, lo sapevamo, che le braccia di Colapesce stavano per cedere.
Intanto asciugo le gocce e declamo versi di Ungaretti pensando che Brandon Lee non doveva morire sul set, che Milano è una dilettante rispetto a Catania in fatto di acquazzoni e che se Brandon Lee fosse vivo e vivesse a Catania e non a Milano – e penso che se fosse vivo potrebbe darsi benissimo che viva a Catania piuttosto che a Milano o New York o Kuala Lumpur o Kamčatka, non vedo perché no – non direbbe più quella frase poetica e stupida che ci piace tanto e per la quale lo ricordiamo. Non la direbbe. Perché ormai è chiaro a tutti che a Catania, avendo piovuto come sta piovendo da tre giorni, è un po’ come se avesse piovuto “per sempre”, una quantità d’acqua pari a ciò che potrebbe significare “per sempre” – dal che ne deriva che sì, “PUO’ PIOVERE PER SEMPRE”- ed è chiaro che noi tutti, anche se chiusi nelle nostre case in via di allagamento, ci sentiamo così, ora. Proprio ora. Come se dovesse piovere per sempre.
Comunque lo farò, vi parlerò presto di Bolaño e Bernhard, perché sono una che non si arrende a due sputacchiate di dio.
Ne scrivo con passione, di Bolaño e Bernhard, mentre li leggo. E nel prossimo post ve ne parlerò.
Intanto dalla bidonville è tutto.
Passo e chiudo.
Parte 2 (oggi)
Non riesco ancora a scrivere di Bolaño e Bernhard.
O meglio, ne ho scritto ma tengo tutto per me perché non so davvero a cosa serva portarvi in Messico o in Austria mentre la città in cui vivo va in frantumi.
Quello che è accaduto ieri a Catania, quello che forse accadrà domani e venerdì ma che è già accaduto prima di ieri e accadrà ancora dopo domani, serve a ricordarmi ineluttabilmente che la sorte di un essere umano è vincolata al luogo in cui nasce o si trova a vivere.
Di là dal consolatorio “ovunque tu sia, conta solo come vivi”, capisci che sei libero nella misura in cui puoi scegliere non solo come ma dove vivere (giacchè dove nascere non lo potremmo scegliere in nessun caso, anche se c’è chi direbbe – e non voglio contestare la possibilità – che abbiamo scelto ogni cosa prima di nascere, persino i nostri genitori).
Se io potessi scegliere, e in questa fase della mia vita davvero non posso – non posso molte cose ma soprattutto non posso scegliere dove vivere – non vivrei a Catania. La amo, questa città, e non consiglierei a nessuno di viverci. A nessuno. Non sempre si può avere chi, ciò che, si ama. E se c’è qualcuno che non capisce cosa significhi sono lieta per questo qualcuno: significa che non ha dovuto soffrire abbastanza da dirsi spezzato.
Tornando a quanto accaduto ieri a Catania: il modo in cui la città è rimasta spezzata, divorata dalla sua stessa – la nostra – sozzura vomitata dai tombini, mi ricorda che quelli come me, quelli che credono di poter sanare ogni ferita e salvare le cose votate alla rovina, hanno fallito. Abbiamo fallito. Io ho fallito. Quelli come me hanno fallito e nulla possono contro quelli che questa città, questa terra in generale, la vogliono franta e sfatta, capo chino ventre a terra bocca nel fango ginocchia sbucciate tra le crepe dell’asfalto. Non la vorrei così, noi non la vorremmo così, questa città, ma ho capito anni fa che io, che noi, non siamo niente. Non siamo i grandi, non siamo i potenti – e dico noi per dire di quelli che, come me, non hanno mai avuto la vocazione a comandare, impartire ordini, dettare le regole del gioco, dire agli altri di fare o non fare qualcosa, e come.
“L’arte della guerra” di Sun Tzu l’ho letto pure io – e ci mancherebbe, leggo qualsiasi cosa – ma non come devono averlo letto quelli che comandano – sempre che l’abbiano letto, ma ormai l’hanno letto tutti – per piegarlo alle nefandezze. L’ho letto, ricopiato, imparato a memoria e capito che no, mi dispiace ma non ce l’ho, la vocazione al comando, e sì, un po’ mi dispiace. Senza arroganza dico che mi dispiace che quelli come me non ce l’abbiano quasi mai, la vocazione al comando. Perché quelli che ce l’hanno questo talento, questa vocazione, sono gli stessi che hanno reso possibile che questa terra, ancora nel 2021, soffochi nella sua stessa merda.
Io scriverò, dipingerò, userò il corpo e la voce ma non ho idea di come tutto ciò che sono e che so fare possa sanare questo tipo di ferita. E posso volere molte cose, tutte bellissime e inutili, ma per quanto lo voglia, per quanto ci provi, concretamente non la costruirò mai da sola, questa rete. Faccio quel che posso. Ma, in questo volere, mi sento spesso sola.
Ripeto: non ho idea di come ciò che so fare possa sanare questo tipo di ferita ma sono certa che può sanarne altre. Se non lo fossi – ma lo sono – getterei la penna, tirerei lo sciacquone – sperando non si intasi e non vomiti le mie lordure – e smetterei di fare la sola cosa che, in questa vita – non so dire delle altre, dove quasi sempre mi immagino ballerina di burlesque o freak in qualche carrozzone circense – so fare bene.
Quello che so fare bene non salverà la mia città – c’è chi, migliore di me, ci ha già provato, e ha fallito – non salverà la mia terra, non salverà un popolo umiliato e offeso (da se stesso) da secoli. Ho smesso di volere le grandi azioni, le grandi rivoluzioni. Preferisco la piccola persona che ha il coraggio di dire aiutami, e poi si lascia aiutare.
Se avrò la possibilità lascerò ancora una volta la mia città, che amo, e, ancora una volta, andrò in frantumi. E sia.
A qualcuno capita di nascere ma nessuno sceglie dove nascere, chi o cosa amare. Sarò egoista ma questo è il tipo di egoismo che pretendo da me stessa per salvaguardare la possibilità di restare io, poter ancora dire di servire a qualcosa, a qualcuno che ha davvero bisogno di ciò che posso offrire.
E riconoscere che, anche se fa male, ci sono Persone – e Cose e Città e Terre – che non vogliono essere salvate.
“…splendida, geniale, sporca, volgare, affascinante, generosa, ingannatrice, urlante, maleducata, ladra, ridente, traditrice, non rassomiglia ad alcuna altra città al mondo.
Io che ti amai subito (…) un giorno o l’altro ti abbandonerò.
E subito non avrò più il mio cuore.
Ma domani, e anche dopodomani, voglio continuare a scrivere un madrigale per te”.
Giuseppe Fava (frammento dedicato a Catania), “I Siciliani”, 1980
Fava, Catania e il 1980… a rileggerlo ora fa male, considerando che 40 non sono serviti a niente.
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Sono felice che ci sia qualcuno “da queste parti” che lo conosce. Posso chiederti come hai “incontrato” Fava? Mi fa piacere parlare di Lui. Cerco di non seminare disfattismo in modo gratuito, per natura sono votata all’altare dell’utopia ma – per dirla con Flaiano – resto una sognatrice “con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole”. Sono d’accordo con te, potentemente disillusa, come tutti quelli che partono o che, restando, pensano di partire. Il peggio è che, tutte le volte che rileggo gli articoli e i testi di Fava (teatro, narrativa) mi accorgo che una possibilità la mia città l’ha avuta, con lui che diceva “io ci sono, facciamo qualcosa insieme per cambiare rotta” e la ricompensa che ha ricevuto è nota a tutti, con in più il sovrapprezzo dell’onta post mortem sul principale quotidiano della Sicilia. Sono pochi, troppo pochi 40 anni e, secondo me, sono pure pochi, troppo pochi e troppo soli, quelli che vogliono cambiare il corso delle cose. Presto o tardi si stancheranno, anche loro, ancora una volta, e partiranno. Si stanno già preparando a partire, anche se ancora non lo sanno.
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