Voglio dire una cosa semplice sulla Scrittura, ma farò il giro largo: concedetemelo.
Tre giorni un mio racconto si è aggiudicato il primo premio della Sezione C – “Un libro in una pagina” di Etnabook, Festival Internazionale del Libro e della Cultura di Catania.
Una cosa piccola ma bella.
Perché?
Ho sempre provato grande scetticismo verso questo genere di competizioni.
Come tutti quelli che hanno un concetto sognante della creazione artistica pecco spesso di eccesso di “astrazione”, mi muovo in una bolla onirica di godimento personale nella quale cose concrete come “promuovere” il mio scrivere, parlarne sui social o semplicemente trovare un modo efficace di comunicarlo sembra arrogante (a me stessa, soprattutto, più che agli altri, e ora vado a spiegare il “perché”).
In una frase, quando si tratta di ciò che amo fatico a scendere a compromessi con la realtà. E chi mi conosce sa bene quanto questa frase riassuma l’essenza di ciò che sono.
Il bello è che io la amo, la vita, proprio per le sue imperfezioni.
Ma, tornando al punto, per una persona come me, la sfida più grande insita nel partecipare ad un concorso letterario era persuadersi che anche se chi mi leggeva non lo avrebbe apprezzato, quello che facevo aveva un valore.
Perché qualcuno terrebbe chiuse nel cassetto centinaia di migliaia di pagine se non per timore di essere giudicato inadeguato e umiliato in ciò che ama?
(Chiedo venia per la banalità dell’immagine ma qualche volta i luoghi comuni rivelano profonde verità).
Ora parlo a chi scrive, e anche a chi vorrebbe ma non sa da dove iniziare.
In entrambi i casi, credo che il problema sia sempre INIZIARE. Come nella vita, in generale.
Per chi scrive, iniziare a esporre al mondo ciò che scrive.
Per chi non lo ha mai fatto e magari crede di non saperlo fare, iniziare a farlo e poi studiare, approfondire le parole e gli strumenti per migliorarsi-
E come inizia a scrivere, chi scrive?
Leggendo. Naturalmente, parlo basandomi sulla mia esperienza personale. Leggere, per me, non significa scorrere un testo ma dialogare con i segni sulla pagina, produrre un vortice di nuovi segni e immagini (spesso appuntando parole sulla pagina stessa, in intimo dialogo con l’autore), immaginare di esperire fisicamente la storia che leggo, innamorandomi del dio delle parole che l’ha creata fino al punto da voler essere come lui/lei. E, immediatamente dopo, cercare e indagare a fondo gli strumenti che mi consentano di crearla io stessa, una storia, una vita nuova sulla pagina. Primo tra tutti, la parola. Secondo, lo sguardo. Terzo, l’emozione.
Le parole le ho cercate ovunque e attraverso i dizionari le ho vivisezionate e memorizzate.
Lo sguardo l’ho allenato sempre, come l’emozione, in ogni cosa che ho vissuto.
E una storia vecchissima, che in molti conoscono.
Ve lo immaginate Kubrick che non guarda film e non si ispira a nessuno per fare cinema?
O Freddy Mercury che non ascolta musica e non si ispira a nessuno per fare musica?
Me lo sono chiesta spesso: perché è così chiaro per altre arti ma non per le parole?
Io ho passato la vita a desiderare di essere qualcun’altro, con il bello e il brutto che questo desiderio comporta: col teatro ci sono riuscita, qualche volta; ma quando ero sola con me stessa contro i miei demoni, cioè il più delle volte, sognavo di essere Conan Doyle, Anais Nin, Thoreau, Simone De Beauvoir, Victor Hugo, Virginia Woolf, Edgar Allan Poe, Calvino e altri che non basterebbe una vita intera per dirli tutti.
Non ci riuscirò mai: sono troppi, dannazione!
Posso accontentarmi di essere solo io e cercare di trovare il modo di farci stare tutti questi sogni dentro la cosa piccola e fragile che sono.
So di essere “sbagliata” in molte cose e, nel corso della mia vita, come tutti, ho avuto il privilegio d’incontrare persone che non mancavano di farmelo notare.
Dico “privilegio” perché penso che abbia senso ringraziare di tanto in tanto quelli che non ci hanno dato credito (insieme ai “grazie” di rito a coloro che hanno creduto in noi).
Tornando al concorso e all’ansia di esporsi: il punto è scoprire che non è colpa di nessuno se pensiamo di non valere.
Diceva un filosofo che adoro, Emil Cioran, nei suoi Quaderni:
“Lavorare per meritare il rispetto di me stesso. A far male non è il disprezzo degli altri, ma il proprio”.
Il vero problema è racchiuso in un’altra frase sempre dell’amico Cioran, creatura altissima che spero non si offenda se gli rubo le parole (dai grandi bisogna rubare, dai grandi!):
“ognuno di noi è il prodotto dei suoi mali passati e, se è ansioso, dei suoi mali futuri” (La caduta nel tempo)
e anche
“Ciò che so demolisce ciò che voglio” (Confessioni e anatemi).
Per farla breve, la lezione credo di averla imparata e siccome fra un paio di giorni compio trentaquattro anni, superando ufficialmente la soglia anagrafica oltre la quale, anche per la religione, non fa più scalpore morire o sparire, ho deciso di farmi questo regalo e guardare questo piccolo premio con dolcezza: non tanto come il riconoscimento del valore di un particolare racconto (quello col quale ho partecipato, che è giusto una parte infinitesimale, una goccia attinta dall’oceano delle “sudate carte”) ma come il complimento sincero e disinteressato da parte di sconosciuti (i membri della giuria che hanno scelto il mio testo tra una miriade di altri in concorso) per oltre vent’anni di lavoro, vent’anni nei quali, anche quando ero sola e nessuno mi vedeva, continuavo a scrivere e amare le parole, il mio mestiere.
Perchè, in fondo, è di questo che stiamo parlando.
E ora che c’è una targa a riconoscerlo possiamo dirlo, no? (Concedetemi, senza polemica, qui so che posso e mi capite, questo fugace divertissement ironico verso il fatto che c’è chi si accorge solo oggi – giustamente, è così che va il mondo! – e questi vent’anni precedenti nemmeno immagina quanto contino, nemmeno li vede).
E no, un libro non l’ho pubblicato. Ma è anche vero che non ho mai avuto il coraggio di provarci.
Ma che le parole sono il mio mestiere, con tutti i meravigliosi fallimenti ed errori che potrò commettere, lo capisco non perché lo so ma perché tutto ciò che faccio e ho fatto nella mia vita alla fine, che mi piaccia o no, mi riporta sempre lì, alla pagina, il luogo dove mi riesce di creare un Tutto col Poco o Niente che sono.
“Ogni istante che passava, sapevo che passava e che non lo avrei mai più rivisto”, dice Cioran, sempre lui, nei Quaderni. E ancora “Nella vita la cosa più terribile è non cercare più”.
Perciò non perdete tempo, trovate qualcosa nella vostra vita che vi faccia sentire Tutto col Poco o Niente che siete, e fatela.
Fatela ogni giorno, per tutta la vita.
Il racconto Cinquecento – Premio Etnabook 2020
Il racconto Cinquecento, versione originale
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Diretta premiazione e lettura racconto
In copertina: Chimere (acrilico e tempera su carta, 24 x 33)
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